Dopo il poeta teppista Limonov e il pluriassassino Jean-Claude Romand de “L’Avversario”, Emmanuel Carrère sceglie, per la sua ultima fatica letteraria, “Il Regno” (Adelphi, 428 pp. 22 euro), due protagonisti schierati decisamente sulla barricata opposta, addirittura due santi veri e propri. Il libro, infatti, tratta soprattutto di Luca e Paolo, cofondatori del cristianesimo e protagonisti in prima persona di quella che risulta una vera e propria cronistoria degli anni ruggenti della nuova fede.
Carrère, si sa, ama fare tesoro di ogni attimo della sua vita suscettibile di trasformarsi in pagina scritta. E’ lui stesso a ricordarlo, quando ironicamente menziona l’autentica frenesia che sembra coglierlo appena si rende conto di avere tra le mani qualcosa di trascrivibile. E a volte l’ipertrofia del suo ego rischia di giocargli brutti scherzi quando, trasformando impercettibilmente i vari personaggi di cui si infatua in altrettante incarnazioni di se stesso, sfuma le differenze e lascia il lettore interdetto di fronte a ritratti che sanno inevitabilmente un po’ troppo di selfie. Anche in questo caso l’identificazione funziona a pieno ritmo, ma stavolta non se ne fa mistero: nella figura di Luca, ricostruita con minuzia e arguzia psicologica, Carrère proietta chiaramente se stesso, soprattutto nei chiaroscuri che lo diversificano così decisamente dai contrasti netti e manichei di un Paolo.
Anche in questa occasione tutto nasce ancora una volta da una precisa fase della vita di Carrère stesso, che trae spunto per la narrazione dai tre anni di crisi, dal 90 al 93, in cui, bloccato come scrittore e imprigionato in un infelice rapporto matrimoniale, tenta di sfuggire alle proprie contraddizioni grazie a una clamorosa conversione al cattolicesimo, non a quello tiepido di tanti frequentatori delle messe domenicali, ma ad una versione dura e pura, che prevede immersione totale nella fede e commento quotidiano del vangelo di Giovanni.
Alla fine di tale periodo gli resteranno 18 quaderni di commenti scritti e un divorzio alle spalle, mentre dal punto di vista ideologico Carrère si affretterà a raggiungere i molti suoi colleghi intellettuali schierati sul fronte di un simpatico agnosticismo, progressista e non privo di velata ironia.
Ma, siccome Carrère non butta mai via niente di Carrère, ecco che, anni dopo, tutto ritorna improvvisamente attuale e prende lentamente forma il progetto di un libro che, facendo in parte tesoro dello spirito dell’antica opera di esegesi evangelica, tenta di ricostruire in un linguaggio contemporaneo, privo di enfasi ma non insensibile al fascino di un periodo storico ricco comunque di stimoli, la nascita del cristianesimo come religione autonoma, grazie all’ opera appunto dell’ accoppiata Paolo e Luca.
Diciamo subito che una prima scorsa all’accoglienza critica ricevuta dal libro annovera un generale disappunto e una diffusa disillusione: a Carrère quasi tutti imputano di aver mancato l’obiettivo, di essere rimasto impigliato, ancora una volta, nell’ipertrofia del suo ego e di non aver aggiunto gran che a quanto già si sapeva sull’argomento.
Probabilmente su questo atteggiamento critico pesa, e non poco, la scelta di Carrère stesso di non prendere decisamente partito, di mantenersi in un precario equilibrio super partes che ai più può suonare come un atteggiamento volutamente sfuggente e scarsamente partecipe. Certo gli eventi sono descritti con occhio disincantato, non c’è la tensione fideistica del convertito, ma se mai il sano realismo di un cronista moderno che tenta di recuperare l’autenticità dietro le mitologie. Ma, come spesso torna a ripetere lungo il corso dell’opera, l’autore non vuole nemmeno rischiare di “gettare l’acqua con il bambino” e, alla fin fine, l’opera cerca di salvare comunque il senso più toccante del mistero e di non dispiacere troppo ad un eventuale pubblico di lettori credenti. Insomma un compromesso che è difficile dire quanto appartenga ad un astuto calcolo di vendite potenziali, o invece sia il frutto di un autentico atteggiamento di disponibilità mentale ad analizzare con la massima apertura anche quanto non si condivide, secondo quello spirito libero e interrogante che il libro stesso definirebbe come il più puro stile di Luca.
Comunque nel Regno, come nelle altre sue opere di maggior successo, Carrère non lesina alcune delle doti che lo hanno reso giustamente uno degli scrittori francesi contemporanei più apprezzati: una scrittura fluida e avvincente, uno stile privo di ombre, sempre nitido e perfettamente a fuoco, una diabolica abilità di immedesimarsi nell’altro, di offrire una visione a tutto tondo capace di rendere avvincenti anche gli aspetti più discutibili e meno attraenti delle storie che si impegna a raccontare. Il periodo storico narrato dal libro non manca, comunque, già di per se di attrattive oggettive e di misteri affascinanti anche per il più smaliziato dei lettori contemporanei.
Siamo sulle rive di un gigantesco impero che abbraccia quasi tutta l’Europa, il medio oriente e le coste nordafricane, regno dominato da una megalopoli in cui si succedono sul trono di imperatore figure spesso inquietanti e terribili, da Caligola a Nerone, e altre più razionali e ragionevoli da Tiberio a Vespasiano e suo figlio Tito. Roma è una sorta di New York ante litteram, città cosmopolita, aperta alle tendenze più varie e attraversata dalle correnti storiche e culturali più diverse e contrastanti.
Dal punto di vista religioso i romani hanno poco da offrire, la religione ufficiale è una latinizzazione dell’Olimpo greco popolato di divinità stravaganti e vagamente perverse, totalmente dedite agli affari propri e poco o nulla interessate alle umane pene. Una religione che va giusto bene per le cerimonie ufficiali, ma lascia presto il campo a tutta una serie di culti provenienti da ogni angolo del mondo conosciuto, ben più confacenti alle aspettative dei singoli credenti. Una sorta di invasione orientale, simile a quanto accadde negli anni settanta del novecento quando, alla supposta decadenza occidentale dei culti tradizionali si tentò di supplire con l’avvento di ogni forma di credo di importazione, buddismo, induismo, settarismi vari, meditazione e yoga assortiti.
Tra le religioni “orientali” popolari ai tempi di Paolo e Luca andava forte l’ebraismo, praticato oltre che dai credenti ortodossi, anche da una pletora di proseliti di varia origine, greci, siriani, romani, che senza convertirsi pienamente erano comunque frequentatori interessati delle sinagoghe disperse lungo le strade dell’impero. Ed è in una di queste che Luca, un medico macedone dalla vasta cultura ellenistica, ascolterà per la prima volta parlare Paolo.
Carrère è come sempre perfetto nell’evocare l’evento: Saul, il nostro Paolo, è un ebreo siriano di aspetto non propriamente affascinante: tarchiato, barbuto, semi calvo, non è individuo particolarmente accattivante, tutt’altro, ma sa parlare. Quando inizia il suo sermone, nell’ atmosfera vagamente annoiata di una sinagoga festiva, attacca con le solite premesse tipiche del luogo, l’alleanza, i profeti, la Legge e via discorrendo. I fedeli prestano un orecchio disattento, sono cose risapute e al massimo si risponde con un amen di convenienza. Poi Paolo viene a parlare del Messia annunciato dalle scritture, anche qui nulla di nuovo o sconvolgente. Ma ecco, improvviso, il colpo d’ala: Paolo annuncia ad un pubblico fattosi improvvisamente attento e stupito, che il Messia è finalmente giunto e, cosa ancor più sorprendente, non porta un nome altisonante come Elia o Isaia, ma si chiama semplicemente Yeshua, nome assai comune che all’orecchio dei contemporanei suona come i nostri Mario o Franco, ed è figlio di un falegname. Ma le sorprese non sono finite: il Messia non solo è venuto, ma è morto ed è resuscitato e presto tornerà, nell’ arco di una singola esistenza, a segnare la fine del mondo e presiedere il giudizio universale. Ce n’è abbastanza per indignare i più, qualcuno vorrebbe addirittura linciare quell’ ebreo blasfemo, ma altri prestano orecchio e restano affascinati. Luca è tra questi e diventerà presto l’arguto narratore delle storie di quell’incontenibile predicatore.
Il cristianesimo come religione è ancora di là da venire, ad esistere sono solo piccoli gruppi sparsi di fedeli che condividono l’agape, il concetto di amore universale insegnato dal maestro, ne celebrano il ricordo e praticano alcuni semplici riti in sua memoria, come spezzare e dividere il pane e bere il vino. Per di più, come ogni gruppo rivoluzionario che si rispetti, tra i fondatori è ben lungi dal regnare l’armonia: la casa madre, con sede a Gerusalemme, rappresentata dal fratello di Gesù Giacomo (trasformato poi in cugino dalla chiesa successiva in vena di decenza familiare) e dai discepoli Pietro e Giovanni, propende per una visione, diremmo noi, più riformista: non si tratta di fondare una nuova religione, l’ebraismo va benissimo com’è, ma di far capire a tutti, ebrei compresi, che il culto di Cristo ne è appunto il compimento finale e definitivo. Paolo invece è su posizioni ben più radicali: il cristianesimo è, in tutto e per tutto, una nuova religione, l’ebraismo ne è stata la culla ma, al momento opportuno, non ha saputo cogliere il grande cambiamento e ha perso ogni diritto a pretendersi eletto. Paolo, ebreo lui stesso, avrà parole durissime per il suo popolo e, se certe epistole attribuitegli davvero gli appartengono, il suo giudizio sarà alla base addirittura dell’antisemitismo cristiano, destinato a prosperare nei secoli a venire.
La contesa, come si sa, andrà avanti a lungo, fino a che la caduta di Gerusalemme e il sacco del tempio di Salomone ad opera dei romani segnerà anche il trionfo definitivo delle tesi paoline e il destino del cristianesimo come religione in rapido divenire, lontana ormai dalle sue fonti palestinesi e ben più radicata nel mondo pagano. Ma sempre comunque legata, conclude Carrère, allo scandalo che ne fu l’origine: quelle parole mai ascoltate prima che sconvolgevano la logica più comune: gli ultimi saranno i primi, il figliol prodigo sarà più amato di quello fedele e morigerato, gli operai saranno remunerati tutti allo stesso modo, indipendentemente dal tempo che avranno lavorato nella vigna, beati i semplici e i poveri e guai ai ricchi… un mondo alla rovescia, difficile da digerire e non solo per i contemporanei di allora.
Alla fine Carrère ci assicura che non intende riconvertirsi e a certe cose continua a non credere, come si astiene dal giudicare in che modo dalle origini si sia giunti alla contemporaneità: comunque il piccolo seme di sesamo ha generato un albero colossale ed è inevitabile che nella crescita ci siano state storture e parziali deviazioni. Ma a ben vedere, la fedeltà al messaggio inziale si sarebbe pur sempre in qualche modo conservata. Conclusione se vogliamo eccessivamente pilatesca e fin troppo assolutoria, ma in fondo chi è senza peccato scagli la prima pietra….
a.pass
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