Osservare una grande civiltà, carica di secoli di storia, ricca di cultura, arte e pensiero, affondare lentamente e inevitabilmente nel crepuscolo della follia, una grande città cosmopolita, vivace, pervasa da una brillante vita sociale, perdersi definitivamente nelle brume di un terrore diffuso e perverso. E farlo da un osservatorio privilegiato e sicuro: l’ambasciata americana a Berlino negli anni dell’ascesa al potere di Hitler, appena dopo che il capo dei nazionalsocialisti aveva ricevuto il cancellierato dalle mani del vecchio Maresciallo Hindenburg.
Erik Larson, scrittore e collaboratore di prestigiose riviste come Time e il New Yorker, con “Il giardino delle bestie” (Neri Pozza, pp.560 , 18 euro) ha voluto ricostruire questo periodo cruciale della storia recente dell’umanità, seguendo lo sguardo disincantato e penetrante dell’ambasciatore William E. Dodd, e quello più romantico ed irruente di sua figlia Martha. Due personaggi per vari aspetti fuori dal comune che offrono una presa diretta sulla nascita del mostro nazista, in un libro che si legge d’un fiato come un thriller, o meglio un racconto dell’orrore, dove i demoni non sono fantasmi ma protagonisti fin troppo reali.
Dodd a Berlino arriva davvero per caso: sessantenne professore di storia all’Università di Chicago, ha perso da tempo ogni fiducia nelle possibilità di una adeguata carriera accademica. Unico sogno rimastogli quella “Ascesa e caduta del vecchio Sud” a cui sta lavorando da anni, il testo di storia a cui vorrebbe affidare la sua imperitura memoria. Sogna così una sinecura in cui potersi dedicare, finalmente senza ostacoli, all’opera della vita, magari un incarico in diplomazia, per cui si propone grazie a qualche amicizia all’interno dell’amministrazione Roosvelt. Senza per altro essere preso troppo in considerazione: Dodd ha poco in comune con la cerchia ristretta dei personaggi che si spartiscono le cariche diplomatiche più prestigiose, non è ricco di famiglia, non ha studiato ad Harvard o Yale, non fa parte dei circoli esclusivi delle classi agiate che ruotano attorno ai centri di potere di Washington. Per cui, quando riceve la telefonata di Roosvelt che gli offre l’ambasciata di Berlino, cade letteralmente dalle nuvole. Crede che la scelta sia finita su di lui per meriti oggettivi: è un vecchio jeffersoniano, letteralmente impastato dei più autentici valori democratici, per di più conosce bene il tedesco e la Germania grazie ai suoi anni universitari trascorsi a Lipsia.
Ma la verità è molto più prosaica: i molti a cui l’incarico è stato offerto in precedenza hanno sempre cortesemente declinato, accampando scuse varie: in effetti la Germania all’epoca è considerata meta assia poco desiderabile, niente a che vedere con Londra o Parigi, per di più le voci crescenti sulle brutalità naziste la rendono un luogo assai poco appetibile. E Roosvelt stesso, salutando Dodd prima della partenza, sembra interessato soprattutto al pagamento del miliardo e duecento milioni di dollari in obbligazioni che il paese deve ai risparmiatori americani. In più c’è la questione giudaica, che sta diventando spinosa. Varie organizzazioni ebraiche si battono in America perché il governo prenda prosizione contro le persecuzioni di cui sempre più spesso si vocifera in Germania. Ma la causa non gode di grande credito nell’amministrazione: molti alti papaveri sono dichiaratamente antisemiti, altri sono spaventati dalla prospettiva di una massiccia emigrazione di ebrei negli Usa. Così si preferisce pensare che le voci sulle violenze tedesche siano esagerazioni di stampa, pregiudizi contro un paese che ha comunque deciso di cambiare e sembra volerlo fare in modo rivoluzionario. Dodd condivide queste idee e parte per Berlino armato dei suoi ideali jeffersoniani: da una parte un sacro ardore per quello che oggi chiameremmo un taglio sostanzioso ai costi della diplomazia, che trova scandalosi a fronte della crisi economica vissuta in patria e nel mondo. Dall’altra la speranza che prevalga infine la ragione e che lui stesso possa svolgere un’opera proficua per convincere i nazisti a più miti pretese.
Così nel luglio del 1933 Dodd sbarca a Berlino accompagnato dalla moglie, dal figlio Bill e dalla figlia Martha. Quest’ultima, fresca di separazione e in attesa di divorzio da un banchiere newyorkese, lo ha seguito perché spinta dalla sua voglia d’avventura: è una ragazza avvenente e spregiudicata, particolarmente portata a coltivare le relazioni maschili e sarà fonte di scandalo ma anche di inattese scoperte sulla realtà più profonda del paese. L’impressione iniziale sembra confermare le più rosee aspettative dei Dodd: Berlino è una città moderna e caotica, pervasa da un vorticoso flusso vitale, popolata di cultura ma anche generosa di divertimenti. E’ vero, ovunque sventolano pigri al sole i lunghi stendardi nazisti, ma il rosso delle bandiere fa pendant con le migliaia di gerani che popolano finestre e balconi, e l’impressione è quella di una città solerte e tranquilla. Certo ci sono le incessanti marce delle SA, le squadre d’assalto, le camice brune di Rohm, che vagano brutali per le strade, ma a parte quelle, il clima generale appare ai Dodd generalmente positivo e costruttivo. Martha addirittura si entusiasma e dopo poco è già una fans sfegatata di quella gioventù forte e bionda che sembra destinata a portare il paese a nuova e imperitura gloria.
L’ambasciatore è più prudente e meno entusiasta. Il console generale americano a Berlino, George Messersmith, che si è occupato della sede durante i mesi precedenti all’arrivo dei Dodd, ha spedito a Washington parecchie relazioni in cui denuncia le troppe aggressioni di cui sono stati vittime cittadini americani in viaggio in Germania. Secondo il console non ci sono dubbi sulla natura violenta e criminale del regime e le sue previsioni per il futuro sono piuttosto cupe. Dodd non condivide inizialmente tali preoccupazioni e tende a vedere le intemperanze delle SA come episodi limitati e comunque non utilizzabili per giudicare in toto il regime. Il suo primo incontro con Hitler gli confermerà queste impressioni: visto di persona il dittatore non colpisce particolarmente, è una personalità sfuggente e apparentemente poco carismatica, cordiale e quasi timido nel suo approccio, nulla a che vedere con le immagini rese popolari dalla stampa. E per di più a Dodd appare sincero nel suo proclamarsi autentico difensore della pace, un errore che, dopo Dodd, commetteranno in tanti.
Insomma, lo sguardo dei Dodd, che Larson ricostruisce minuziosamente grazie a diari e testimonianze dirette, è quanto di meno inficiato da pregiudizi si possa immaginare: il nazismo è ai suoi esordi, appare ricco di promesse e le storture, che pure cominciano corpose a trasparire, non sono ancora tali da far intuire l’orrore che si nasconde appena sotto le apprenze. Martha, addirittura, se non si converte, appare pericolosamente attratta dal regime. A fare da tramite con gli alti papaveri nazisti è una figura singolare, Ernst Hanfstaengl, detto Putzi, un individuo corpulento e colossale, laureato ad Harvard e diventato intimo di Hitler, per cui si diceva suonasse di notte il piano, incaricato dei rapporti con la stampa estera per il partito nazista e assiduo frequentatore di salotti mondani e ambasciate. Sarà Putzi a far incontrare Martha con Hitler, pare addirittura fosse convinto di poter far nascere un flirt fra i due, ma soprattutto a presentarle l’uomo a cui la ragazza si legherà pericolosamente per lungo tempo. Rudolf Diels era il capo della Gestapo, uno degli uomini chiave del nuovo potere, un bel tenebroso dal volto attraversato dalle molte cicatrici dei duelli studenteschi e, nonostante tutto, uno dei pochi nazisti di cui si diceva possedesse ancora un barlume di coscienza, cosa per cui pagherà un alto prezzo all’indomani dell’ascesa di Himmler ai vertici delle SS e della sicurezza del regime.
Sarà uno dei tanti flirt della ragazza, presa nel turbine della vita spensierata delle ambasciate, turbata sì dalle prime scene di violenza a cui è costretta ad assistere, come il pestaggio di una donna, rea di rapporti con un ebreo, nelle strade di Norimberga, ma ancora convinta che il regime fosse comunque una buona cosa per le sorti della Germania. Ma nelle sue amicizie ci sono anche voci dissonanti: quella della giornalista Bella Fromm, protagonista del gossip berlinese e una delle ultime ebree ancora autorizzata a scrivere su una rivista, oppure Mildred Fish Arnack, americana moglie di un cittadino tedesco che in futuro diventerà animatrice di uno degli ultimi salotti che si opponevano allo strapotere nazista, prima dell’arresto e della inevitabile condanna a morte. Sarà grazie a loro che la ragazza comincerà ad osservare le cose con occhi diversi fino a che l’incontro con un addetto dell’ambasciata sovietica, Boris Vinogradov, cambierà definitivamente le sue prospettive sentimentali ed ideologiche.
Nel frattempo anche l’ambasciatore Dodd sta lentamente mutando posizione: un suo intervento alla Camera di commercio americana di Berlino in occasione del Columbus Day cambierà definitivamente le cose. Dodd, preoccupato per il proseguire delle aggressioni a cittadini americani, il più delle volte per futili motivi, e del clima di terrore che comincia a percepirsi nettamente nel paese, riscopre le sue radici autenticamente democratiche e, nel suo intervento, pur non citando mai il governo di Hitler, fa un lungo excursus storico in cui inneggia alla democrazia e condanna senza remore ogni dittatura. Il discorso, che Goebbles in persona si occuperà di far cancellare da ogni relazione di stampa, susciterà comunque un vespaio e parecchio entusiasmo tra il pubblico tedesco, che certe cose pur pensandole era costretto a tenerle ben nascoste dentro di sé.
Dodd, a questo punto, comincia a mandare relazioni preoccupate a Washington: il paese appare in pieno riarmo e le intenzioni di Hitler, al di là delle dichiarazioni di facciata, suonano quanto mai bellicose. Ma in patria pochi gli prestano ascolto: negli ambienti diplomatici Dodd è considerato una buffa anomalia, le sue pretese di moralizzazione gli hanno messo contro anche molti dei funzionari della sua stessa ambasciata, e nella cricca del segretario di stato la sua provenienza sociale è una ragione sufficiente per non prenderlo troppo sul serio. Per di più la tendenza dominante è quella di sottovalutare i segnali di allarme provenienti dalla Germania. Il partito isolazionista domina incontrastato gli schieramenti politici e il solo Roosvelt sembra rendersi conto del pericolo incombente e della necessità che, prima o poi, gli Stati Uniti prendano posizione.
Nell’estate del 1934 le cose precipitano. E’ una stagione terribilmente calda e afosa. In America la siccità ha provocato il Dust Bowl e la fuga di migliaia di persone dalle pianure centrali verso la California e la costa. A Berlino un clima pesante rispecchia la tensione che sembra impadronirsi sempre più della città e dei suoi abitanti. Hitler, Goering e Goebbels stanno per risolvere, alla loro maniera, il problema rappresentato da Rohm e dal suo strapotere come capo di quel vero e proprio esercito che sono diventate le camice brune. E’ una lotta intestina senza pietà, di cui i Dodd hanno avuto sentore grazie alle varie disavventure di Diels, caduto in disgrazia con Himmler nonostante la protezione di Goering. Rohm e molti oppositori del regime periranno sotto i colpi crudeli delle SS, mentre Hitler si assicura che i suoi oppositori non ricorrano al morente Hindenburg per scalzarlo dal potere. La morte del Maresciallo, di lì a poco, lo porterà ad ergersi a capo assoluto della Germania e la scomparsa di Rohm gli assicurerà anche la fedeltà dell’esercito regolare, che mal sopportava il rissoso capo delle camicie brune.
Dodd è sconvolto: i metodi dei nazisti gli ricordano quelli delle gang della sua Chicago, la notte dei lunghi coltelli, come è stata ribattezzata le resa dei conti tra i nazisti, assomiglia pericolosamente a quella strage di San Valentino che Dodd ricorda assai bene, e comunque il governo di Hitler sembra sempre più in mano a pericolosi delinquenti e cupi psicopatici. I suoi accorati appelli a Washington contineranno fino al 1938, quando verrà rimosso dall’incarico, con somma gioia dei suoi molti nemici nell’amministrazione, sostituito da un ambasciatore molto più disponibile a chiudere entrambi gli occhi di fronte alle nefandezze naziste. Ma nemmeno questo atteggiamento servirà ad evitare quel conflitto che Dodd aveva ampiamente previsto e che vide scoppiare poco prima di morire. Sua figlia Martha gli sopravviverà fino al 1990 e continuerà ad avere una vita avventurosa. Recatasi in visita in Russia su consiglio del suo amato Boris, nel frattempo eliminato nelle purghe del regime stalinista, resterà comunque delusa ma verrà contatta e in qualche modo arruolata da spie sovietiche e questo le costerà l’espulsione dagli Usa. Finirà la sua vita a Praga, disgustata dal regime e dai carri armati mandati a difendere il socialismo.
L’amara lezione del libro di Larson è, ancora una volta, riassumibile nell’annosa questione: Hitler poteva essere fermato prima che si trasformasse nel flagello che distrusse l’Europa? Probabilmente sì, e abbastanza facilmente se si fosse intervenuti in quel fatidico 1933, quando il potere del Fuhrer era ancora assai labile e facilmente rovesciabile. Ma pochi si accorsero davvero del pericolo: molti preferirono distogliere lo sguardo o illudersi che certe barbarie fossero solo intemperanze adolescienziali che la maturità del regime avrebbe presto cancellato. Dodd, da buon vecchio democratico, non si fece ingannare ed ebbe quasi da subito ben presente il pericolo mortale. Peccato che nessuno volle ascoltarlo e tanto meno prenderlo sul serio.
a.pas.
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