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“Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te”. Lo slogan, scaturito insieme a decine d’altri dal geyser eruttato nel pieno del “joli mois de mai” parigino, era piovuto anche sulla Genova sonnacchiosa e grigia di fine anni ’60. E vecchia appariva davvero la città, dominata in allora da una borghesia persa nel circolo vizioso delle sue ritualità famigliari, nel grigiore della sua omogeneità culturale, catturata dalla logica sempiterna dello “scagno”. Eppure il fremito di novità che percorreva il mondo in quegli anni poteva arrivare anche lì, perfino attraverso le ritualità più scontate, come il viaggio premio in Inghilterra alla fine del liceo, per studiare l’inglese e osservare il mondo del business anglosassone, oggetto di deferente ammirazione. Capitava così che invece di frequentare i santuari della finanza, qualcuno si perdesse nei meandri delle decine di club che popolavano la Swinging London, letteralmente rapito dalla potenza della musica che si suonava e dalla vitalità che la pervadeva.
Tornati a casa si restava straniti da una sorta di nervosismo esistenziale, si stentava a rientrare nei binari della quotidianità, così che iscriversi all’Università poteva significare preferire alle noiose lezioni dei cattedratici le rabbiose assemblee che, un po’ ovunque, cominciavano a popolare gli istituti. Erano gli anni delle marce contro la guerra in Vietnam, dei sit-in davanti ai consolati Usa, della contestazione a un mondo non solo vecchio, ma anche profondamente ingiusto. Inevitabile, a quel punto, “politicizzare” il proprio malessere, leggerlo in chiave di conflitti di classe, di dominio di una borghesia aggrappata ai propri privilegi come alle proprie idiosincrasie, laddove ogni differenza era vissuta con sospetto se non condannata a priori.
Eppure, qualcosa non tornava. Troppo vero che il mondo alle nostre spalle fosse vecchio, consunto da rituali scontati e antidiluviani. Ma il nuovo verso cui si pretendeva di correre, dov’era? Possibile che lo si potesse trovare nei sogni di uno stalinismo riciclato e rimesso a nuovo, nei deliri di un maoismo infantilmente ingenuo, o nelle lunghe disquisizioni sul fatto se Lenin fosse o meno il padre putativo di Stalin? Il “68”, in questa dimensione politica, più che rappresentare il razionale sviluppo di una autentica spinta al cambiamento, ne sembrava piuttosto un finale fin troppo prematuro, il tappo che riduceva l’ansia del nuovo ad uno stanco rituale sinistrorso di adorazione di vecchi miti già allora ampiamente decomposti, da Lenin a Trockij, da Mao a Ho Chi Minh.
Ma poteva accadere che, iscrivendosi quell’anno a Filosofia, si inciampasse in qualcosa di imprevisto e si venisse finalmente a contatto con qualcuno che lo spirito radicale dei tempi sembrava davvero incarnarlo. Era un gruppo di amici che ruotava attorno a Gianfranco Faina, docente di Storia Moderna, personaggio di spicco della sinistra non allineata. Uscito dal Pci all’indomani dell’invasione dell’Ungheria, coerentemente radicale ma mai stalinista, Faina aveva dato vita prima al circolo Rosa Luxemburg e poi, ai tempi in cui lo conobbi, alla Lega degli operai e degli studenti, trasformatasi in Ludd.
Rispetto alle solite prediche più o meno progressiste e alle critiche su posizioni oltranziste ai partiti tradizionali della sinistra (erano gli anni in cui Pajetta bollava gli studenti di “lupi mannari” e Pasolini si scioglieva in lodi insensate dei giovani poliziotti, a suo dire ben più autentici dei borghesi studenti) i luddisti citavano Paul Cardan, “Socialisme ou Barbarie” e la prima critica radicale al delirio burocratico sovietico, parlavano di autogestione e soprattutto, per bocca di Mario Lippolis, ironico e sarcastico oratore nelle assemblee di Filosofia, dei situazionisti francesi, gruppo allora sconosciuto ai più e ben lungi dal profluvio di citazioni a sproposito di cui sarebbero diventati vittime in futuro.
Immediatamente attratto da un discorso che finalmente pareva tener conto dello spirito dei tempi e del nuovo che prepotentemente si affacciava, ricordo ancora i consigli non richiesti di qualche compagno di allora che suggeriva di non prestar loro ascolto in quanto provocatori, ingenui spontaneisti, predicatori del nulla e via insultando.
Fortunatamente non lo feci e venni così a conoscenza di concetti sicuramente cruciali, come quello di critica della vita quotidiana (non aspettiamo la rivoluzione a venire, ma combattiamo già da subito il potere dell’alienazione all’interno delle nostre singole esistenze), di comunismo consigliare (non serve un partito egemone, guida e coscienza, ma piuttosto una miriade di consigli che si autogestiscono e decidono sul loro immediato futuro), di società dello spettacolo (la teoria di Debord sulla spettacolarizzazione della merce e sulle deflagranti conseguenze nelle società contemporanee), di detournement (la capacità di rovesciare la realtà, mostrandone in controluce gli autentici significati), di deriva metropolitana (il vagabondaggio creativo che trasforma concretamente il modo di vivere nelle città). Così, mentre all’indomani dell’invasione di Praga da parte dei sovietici, qualcuno arrivava a scrivere che “il socialismo si difende anche con i carri armati”, mentre tanti inneggiavano al libretto rosso e alla rivoluzione culturale, che altro non era se non una spietata epurazione voluta dallo strapotere maoista, i luddisti, in modo ironico e giocoso, lanciavano le loro provocazioni, dimostrandosi eccentrici rispetto a tanto neo conformismo di maniera. Oltre all’Internazionale Situazionista, si leggevano “Do It” di Jerry Rubin che raccontava le forme creative della lotta alle lobby negli USA, i romanzi di Victor Serge che descrivevano dall’interno l’incubo staliniano, si pubblicava un opuscolo sulla cui copertina campeggiava ironicamente il motto “Il lavoro rende liberi” del lager di Aushwitz.
E nella sede di Ludd in via San Luca, nel triennio in cui Ludd ebbe vita dal ’69 fino al ’71, transitavano personaggi dello spessore di Giorgio Cesarano, poeta anarchico e analista attento della contemporaneità, Mario Perniola, allora responsabile della rivista “Agar Agar”, Jacques Camatte, a sua volta editore di “Invariance”, divenuto poi psicogeografo e sostenitore di soluzioni assai simili a quelle pensate dai comontisti , mentre si allacciavano rapporti con gruppi milanesi, torinesi e romani. A Roma, nella sede del “Film Studio 70” di Amerigo Sbardella e Annabella Miscuglio, ricordo fumose riunioni interrotte dal passare di bellezze eteree succintamente vestite, accolte da improvvisi e attenti silenzi. E il sapore dolciastro e intenso di un “fumo” mai provato fino allora. Circolo e abitazione sorgevano a Trastevere, a pochi passi da Regina Coeli e disponevano di una sala dove si proiettavano film dell’avanguardia internazionale, tutto aveva orari assurdi e ti faceva sentire terribilmente provinciale.
Tra i gruppi amici quello dei torinesi spiccava per il radicalismo non solo predicato ma apparentemente anche duramente praticato. Editavano una rivista, “Acheronte”: il “fiume infernale si è rimesso in moto” procedendo spedito verso la rivoluzione, e avevano dato vita all’Organizzazione Consigliare, in linea con le teorie di autogestione praticate anche a Genova. Il personaggio di spicco, Riccardo D’Este, era allora in galera ed era stato tra i protagonisti della rivolta carceraria delle Nuove. Aveva fama ambigua, perché da sempre molti lo accusavano apertamente di essere un provocatore, addirittura, sosteneva qualcuno, un cripto fascista mascherato da gauchista. Quando finalmente comparve a Genova, lo fece in occasione di uno spettacolo teatrale recitato tra i vicoli del centro storico, il “Genovese Liberale” credo si intitolasse, e Riccardo e i suoi proposero di parteciparvi direttamente, trasformandolo dall’interno in una provocazione in presa diretta. Fu divertente, a tratti anche pericoloso, perché in qualche occasione si rischiò quasi il linciaggio.
Per i torinesi il concetto di critica della vita quotidiana diventava spesso e volentieri un processo immediato alla vita di ogni giorno dei singoli individui: com’era possibile definirsi rivoluzionari e continuare a praticare il tran tran quotidiano come se nulla fosse? Tra i luddisti genovesi vigeva in effetti una stretta divisione tra vita famigliare e dimensione politica, le donne non partecipavano alle attività del gruppo e raramente venivano coinvolte, se si eccettuano i membri più giovani che invece tendevano a vivere tutto in coppia. D’Este al proposito aveva buon gioco nella sua critica radicale, anche se spesso i toni cadevano nell’eccesso e si facevano violenti, finendo per impaurire più che convincere.
Sede di quelli che sarebbero poi diventati i Comontisti era allora, alla fine del 1970, un casolare in Toscana. Niente di simile alle belle tenute tra i pioppi di tanti radical chic che già allora popolavano le amene colline del Chianti. Ponte a Egola era un paesone piuttosto brutto del pisano, per di più centro di concerie che inquinavano il rio locale sollevando un puzzo infernale. La casa era un casermone in rovina, affittato ai ragazzi perché probabilmente nessuno lo voleva, un due piani di cemento grigio, freddissimo, dotato di uno stanzone con un enorme camino dove era possibile bruciare un albero intero (e in effetti spesso accadeva). Qui conveniva gente da tutta Italia, coinvolta da Riccardo nei suoi tour delle varie città. Un mix dei più diversi tipi sociali, dai borghesi annoiati trasformatisi in rivoluzionari radicali, ai piccoli delinquenti amati da Riccardo, che aveva fatto dello slogan “contro il capitale lotta criminale” una regola di vita e in carcere aveva conosciuto simpatici giovani, dediti all’esproprio e al furto con scasso.
Tra le sedute dedicate alla teoria e all’autoanalisi collettiva, giravano un sacco di droghe, soprattutto psichedeliche, ma comparivano pure ben più sinistre siringhe. Fu in questo contesto, tra trip e spinelli vari, durante interminabili nottate di discussione, in cui chi prima cedeva al sonno era visto come un vero e proprio traditore, e Riccardo sembrava non dormisse mai, che nacque l’idea di comontismo. La parola in effetti fu proposta da Dada Fusco, fresca di tesi di laurea su Gadda e quindi inevitabilmente portata al neolinguismo. Voleva significare, in effetti, il superamento del comunismo come semplice comunità dei beni, a favore di una comunità degli esseri, ed era ricavata dal genitivo greco “òntos”, “dell’essere” appunto, un richiamo alla gemeinwesen marxiana, il seme della nuova umanità in marcia, la cui realizzazione poteva iniziare da subito, da parte di piccoli gruppi rivoluzionari in grado di stravolgere la realtà loro attorno. Era, rivisitato, il concetto di rivoluzione ora e subito, con qualche sfumatura hippie e pure qualche ombra vagamente mansoniana.
Sulla copertina del primo e unico numero dell’omonima rivista, due Adamo ed Eva nudisti compivano, su una duna sabbiosa, il salto di qualità di hegeliana memoria, il passaggio alla comunità essenziale, nucleo fondante della nuova umanità che non si sarebbe limitata a espropriare i capitalisti, ma avrebbe visto la società fondersi finalmente in un unicum spirituale. Dal punto di vista teorico restava forte il debito nei confronti dei situazionisti: c’erano vignette detournate e slogan accattivanti (nella società che abolisce l’avventura, l’unica avventura è l’abolizione della società), scampoli di passione criminale (il detournemant di un articolo della Stampa, “Rapine ovunque”), analisi storiche del consigliarismo e della rivolta di Kronstadt nei confronti del leninismo, vile repressore della giusta rabbia dei marinai rivoluzionari della fortezza, presa d’assedio e infine distrutta dall’armata rossa di Trockij.
Coi situazionisti la dipendenza ideale era palese, ma i rapporti diretti non erano gran che: ricordo ancora l’incontro casuale, in una trattoria fiorentina, con Gianfranco Sanguinetti, editore dell’unico numero dell’IS italiana, a cui credo fosse presente lo stesso Debord. Nonostante gli inviti a voce altissima di Ricardo tra un tavolo e l’altro, quelli non fecero una piega e manco finsero di notarlo. In linea con l’aristocratico senso di appartenenza dell’IS, da sempre all’opera nell’esclusione perenne dell’indegnità, e con la fama di tribù selvaggia e poco trasparente che comunque perseguitava i comontisti.
Tra i capisaldi dell’idea comontista dominava la critica del lavoro salariato come macchina dello sfruttamento perpetuo. Fu prodotto addirittura un volantino, in occasione del primo maggio, in cui si sosteneva, appunto, che “il lavoro non si festeggia, si abolisce!”, obiettivo a cui, purtroppo, sarebbe giunto ben prima lo stesso capitale, creando non felicità ma disoccupazione. Comunque nessuno lavorava, la sopravvivenza era garantita, al di là dei mezzi personali, dalle pratiche di esproprio, che godevano del beneplacito ideologico, ma alla lunga avrebbero portato all’isolamento e alla fine prematura, complice anche un ricorso sempre più massiccio alle droghe pesanti.
Eppure, al di là dei limiti evidenti di un gruppo che durò lo spazio di un mattino, bruciandosi letteralmente in poco più di due anni dal ’70 al ‘72, il suo ruolo non dovrebbe essere marginalizzato in una critica semplicemente folcloristica. Le istanza portate avanti avevano una loro profonda coerenza, la critica della separazione, allora dominante, tra pensato e vissuto, trovava un indubbio fondamento e sottolineava uno dei limiti che avrebbero portato la contestazione sessantottina a esaurirsi nelle ideologie più fumose e deteriori, a scapito di quelle istanza di rinnovamento che, fortunatamente, saranno riprese da gruppi meno ideologizzati ma assai più concreti, che comunque il mondo, in qualche modo, lo cambiarono.
Allora, all’inizio degli anni ’70, nella sinistra estrema cominciava a sollevarsi un fantasma oscuro che avrebbe, alla fine, sepolto tutto il movimento, quello del terrorismo armato. I comontisti, pur nella loro visione radicale, esclusero da sempre il ricorso alle armi come soluzione possibile. Eppure nell’ ambiente giravano prepotenti inviti a passare alla clandestinità, in cui purtroppo caddero anche insospettabili e stimati ingegni, compreso quel Faina che per me era stato all’origine di tutta questa vicenda. Ma si vedeva bene già allora il vicolo cieco in cui si sarebbe finiti, e le voci di infiltrazioni spionistiche e provocatorie erano continue, pressanti e ben documentate.
Comontismo terminò così la sua breve esistenza, sciogliendosi nella vita dei singoli individui, D’Este continuò la pratica di critico radicale, editando pamphlet e restando comunque coerente con se stesso fino alla fine, altri cominciarono un percorso di allontanamento da una ideologia che stava, in quegli anni, producendo frutti avvelenati. Così agonizzava, nelle tenebre della fine del decennio, il sogno di una rivoluzione permanente. I cambiamenti, in fondo c’erano stati, certe mentalità decrepite uscivano sconfitte e determinati rituali diventavano finalmente improponibili. Ma la lotta armata fu, nell’immediato, la pietra tombale di tante speranze e finì per dare l’avvio al decennio di controriforma conformista che avrebbe portato ai paninari e al “Drive In”, quel trionfo di tette e culi che diede agli italiani l’illusione di essersi finalmente liberati e segnava invece l’inizio di un avvenire piuttosto oscuro.
Alfredo Passadore
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