Con il quindicesimo titolo di una bibliografia fattasi ormai corposa, Ian McEwan sembra voler fare un salto nel passato, ritornando a temi ed atmosfere tipiche del suo primo romanzo di grande successo, quel “The Innocent” del 1990 (da noi “Lettera a Berlino”) che gli diede visibilità internazionale e fama di giovane scrittore in irresistibile ascesa. Un successo sicuramente irrobustito dall’ottimo film di John Schlesinger con Isabella Rossellini e Anthony Hopkins che ne fu immediatamente ricavato, secondo una solida tradizione che ha visto per ben sette volte (otto con il film già in cantiere su questo ultimo titolo) altrettante opere di McEwan farsi titoli di successo sul grande schermo.
Come il suo predecessore, anche “Sweet Tooth” (“gusto per il dolce”, diventato nella traduzione di Einaudi un più anodino “Miele”) è una spy love story ambientata negli anni caldi della guerra fredda, questa volta non più nella Berlino fine anni cinquanta, ma in una Londra appena uscita dall’epoca dell’amabile “swingin London”, in cui gli anni ’70 si annunciano con la cupa colonna sonora delle esplosioni innescate dall’Ira.
Ma le similitudini si fermano qui: la “lettera” era quello che sembrava, un robusto thriller con venature dark, secondo lo stile tipico del giovane McEwan che gli aveva meritato il malizioso nomignolo di “MacAbre”. Miele invece è un’esperienza letteraria assai più complessa e matura, che inscena con il lettore una sorta di gioco delle tre carte, invitandolo continuamente a scoprire dove si nasconde il senso autentico e profondo della storia. McEwan muove i fili con indubbio talento, ma la sfida è di quelle toste: riuscire a tener desta l’attenzione con una storia che sfida più il semiologo che l’appassionato di mistery.
La prima carta, lo strato più esterno, è rappresentata dal plot in sé, che lo scrittore attinge da una storia vera, lo scandalo che, nel 1967, travolse il poeta e saggista Stephen Spender quando si venne a sapere che la sua autorevole rivista “Encounter” era finanziata dalla Cia. Benché innocente, Spender dovette rassegnare le dimissioni, mentre veniva alla luce la strategia con cui i servizi americani cercavano di contrastare certe predisposizioni filo sovietiche dell’intellighentia europea, distribuendo generosi finanziamenti a istituzioni culturali ritenute comunque meritorie nell’affermazione dei “valori occidentali”. Nel romanzo di McEwan è il servizio inglese MI5 a mettere in piedi qualcosa di analogo, appunto l’operazione “Sweet Tooth”, con cui sovvenzionare personaggi significativi dell’ambiente culturale anglosassone. Ed è nell’ambito di questa operazione che la bella Serena Frome, protagonista del romanzo, viene incaricata di contattare il promettente giovane scrittore Tom Haley per farne, a sua insaputa, un partner beneficiato. Serena non tarda a farne anche il suo amante e i guai scaturiscono inevitabili.
L’operazione spionistica è chiaramente opera di fantasia, ma McEwan fa abile esercizio di realismo: lo MI5 anni ’70 è ritratto con nitida chiarezza: niente effetti roboanti alla Ian Fleming, ma il tetro lavoro di una burocrazia meschina che si aggira in un vecchio palazzo dallo squallore kafkiano. Serena affronta le umiliazioni del lavoro femminile in un ambiente pensato quasi esclusivamente per il macismo più sfacciato, ma nella scenografia si aggirano anche personaggi reali e innovativi, come quella Stella Rimington destinata a diventare nella realtà la prima donna ad esserne il capo effettivo, che si ritrova tra le pagine del libro sotto uno trasparente pseudonimo e già ispira le sue umiliate colleghe. Serena non farà invece alcuna brillante carriera e anzi si ritroverà presto immersa in un mare di guai, perseguitata dal più classico degli interrogativi in questo tipo di situazioni: glielo dico o non glielo dico, al caro amante, chi sono realmente?
La seconda carta, del nostro piccolo gioco di prestigio, è rappresentata dalla natura per molti aspetti autobiografica che, man mano, viene ad assumere il romanzo. Chi è davvero Tom Haley, quanto realmente c’è in lui di McEwan? Perché, in effetti, le somiglianze tra lo scrittore “corrotto” da Serena e il giovane McEwan sono assai più d’una e per nulla casuali. A cominciare dai tre raccontini, inseriti nel testo e riassunti da Serena, che rimandano direttamente alle prime raccolte di McEwan: stesso lo stile e stesso gusto della provocazione, piccoli gioielli in cui scambio delle parti, innocue perversioni e invenzioni strabilianti cooperano abilmente a sorprendere il lettore. E come già nella descrizione del MI5, anche nella raffigurazione dell’ambiente letterario della Londra anni ’70 McEwan mischia sapientemente invenzione e realismo, fino al punto che qua e là compaiono personaggi autentici della sua biografia, dall’amico scrittore Martin Amis al critico Ian Hamilton e all’editore Tom Maschler. Miele non vuole essere per nulla un romanzo autobiografico, la finzione domina sempre e comunque e la storia passionale dei due amanti resta coinvolgente, tale almeno da nascondere il trucco. Ma indubbiamente la sua penna, pur non indulgendo mai ai particolari, traccia rapidi schizzi di una realtà per molti aspetti ancora assai vivida. Dall’ambiente provinciale e marginale in cui Serena è cresciuta, lei figlia di un vescovo anglicano appena sfiorata dagli echi dell’estate dell’amore, giusto qualche spinello e una manciata di buone canzoni rock. Fino ai quartieri più cool della Londra modaiola, che si sta appena risvegliando dalla sbornia beat per precipitare in un decennio fatto più di ombre che di luci psichedeliche e stroboscopiche. Sono gli anni del grande sciopero dei minatori, della prima crisi energetica, della sempiterna lotta tra arabi e israeliani, gli anni del Vietnam e dell’invasione di Praga, quando i due blocchi mostrano, sotto la maschera condiscendente, la faccia dei bulldog assassini. E sono anche gli anni della recrudescenza irlandese, quando all’ansia per la possibile guerra atomica tra i blocchi, va sostituendosi inevitabilmente quella assai più attuale per il pericolo terrorismo, rappresentato nel caso specifico dalla lotta senza tregua tra cattolici e protestanti.
In questa chiave, Miele può essere letto anche come un ritratto, divertente e divertito, di un’epoca ormai tramontata, un’epoca di grandi contrapposizioni ideologiche in cui l’innocente passione di due amanti viene inevitabilmente travolta da giochi ben più grandi di loro. Ma c’è di più, a questo punto è bene scoprire la terza carta del gioco. Se ormai sappiamo chi potrebbe essere Tom Haley/ Ian McEwan, in un gioco di ombre cinesi per cui lo scrittore personaggio è e non è lo scrittore autore, resta da interrogarsi sulla reale natura della sua antagonista e amante. Chi è, davvero, Serena Frome? Tra le sue note salienti apprendiamo subito che la si potrebbe definire una lettrice compulsiva ed onnivora, dotata di un autentico vorace appetito per ogni forma di narrativa. Da giovane studente ha tenuto una rubrica letteraria su una rivistina universitaria, dove si distingueva per le sue opinioni all’epoca controcorrente, capaci di mischiare con naturalezza alta e bassa letteratura, secondo una moda appena agli inizi per cui una Jacqueline Susann qualsiasi, mitica autrice della “Valle delle bambole”, valeva bene una Jane Austen. Sarà una precoce infatuazione per Solženicyn a farle perdere la rubrica e a metterla infine in contatto con l’MI5, per mezzo di un altro amante, un vecchio professore che migliora ampiamente la sua sessualità e le sue letture.
Insomma, la spia che lo amava era anche la sua affezionata lettrice, direbbe Tom Haley, in un gioco a nascondino che fa del rapporto tra lettore e scrittore una variante del voyerismo con vaghe allusioni sessuali ed epistemologiche insieme. Ma, a ben vedere, le cose non sono mai così semplici con McEwan. Il romanzo è una vera camera degli specchi, dove le immagini si rimandano e si rispecchiano all’infinito. Serena è il personaggio narrante, un altro grande ritratto femminile nella galleria dell’autore di “Espiazione”, ma è pure la protagonista della storia, a sua volta creata dallo scrittore…in una fuga continua di reciproche rappresentazioni.
Quello di McEwan in Miele è sicuramente un gioco raffinato, portato alle estreme conseguenze, ma quanto riuscito? La critica, a proposito, si è decisamente spaccata. Per alcuni lo scrittore inglese ha sfiorato il capolavoro, confermandosi tra i massimi autori di lingua inglese viventi. Per altri la ciambella non è proprio riuscita e il libro è un buco nella ricca bibliografia del nostro. Ai lettori l’ardua sentenza, ma una cosa la si può sicuramente dire: McEwan è riuscito a scrivere un libro che, per quanto sfaccettato e complesso, sarebbe sicuramente piaciuto a una qualsiasi Serena Frome.
a.pas.
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