Willy Vlautin, ottimo musicista, da oltre una decade leader della cult band di Portland “Richmond Fontaine”, è uno dei rari casi di artista capace di intraprendere contemporaneamente due percorsi creativi distinti e, in ambo i casi, con risultati notevoli di pubblico e critica. Dal 2006 infatti Vlautin è anche un acclamato scrittore di narrativa, osannato nell’anno del suo esordio come uno tra i migliori autori americani contemporanei dalla New York Times Book Review. “La ballata di Charles Thompson” pubblicato ora in Italia da Mondadori (Strade Blu, 261 pp. 17 euro) è il suo terzo romanzo e, sicuramente, uno dei più toccanti.
Le due attività di Vlautin, a ben vedere, non sono comunque poi così distanti: nelle loro canzoni, intrise di una vena cupamente malinconica e spesso immerse in un’atmosfera soffocante, i Richmond cantano di quella che, banalmente, si definisce l’altra America, la sconfinata provincia del continente, quel ventre molle in cui affondano mestamente milioni di vite, ben lontane dallo sfolgorio abbagliante delle grandi città, un hinterland immenso fatto più spesso di puro nulla. E’ lo stesso universo spaziale dove si muovono, come anime dannate da un fardello esistenziale tristemente inevitabile, i protagonisti delle storie di Vlautin.
Come i fratelli Flannigan , in fuga perenne da un motel all’altro nello sfolgorante esordio di “Motel Life”, o la povera e abbandonata Allison di “Verso Nord”, anche Charlie Thompson è uno di quegli adolescenti inqueti che comunemente verrebbero definiti “difficili”, o peggio ancora borderline. Ma la sola colpa di Charlie è quella di essere nato nel posto e nel tempo sbagliato, in un mondo che fa poco o nulla per capirlo ed accettarlo.
Vlautin non fa mistero di chi siano i suoi numi tutelari in letteratura: in primis John Steinbeck, a cui spetta la citazione che apre il racconto e al cui “Uomini e Topi” fu paragonato dalla critica il suo romanzo di esordio. Ma, sicuramente, anche Raymond Carver, per l’atmosfera cupa e drammaticamente surreale di molti suoi racconti. E infine, perché no, Flannery O’Connor, per le sue storie di adolescenti alienati che trovano la grazia nelle situazioni più assurde e degenerate.
Ma Vlautin, comunque, ha un suo stile preciso e inimitabile che può avere molti padri nobili, ma resta in ogni caso assolutamente unico e originale. Uno stile secco e molto concreto, di una precisione millimetrica nella descrizione delle situazioni di vita, frutto probabilmente dell’abitudine alla concisione delle canzoni, ma anche inevitabile per la psicologia dei personaggi, in fuga perenne e poco propensi a trovare spazi per riflessioni profonde, per cui comunque non avrebbero né il tempo né la voglia.
Il Charlie Thompson della ballata, a ben vedere, è un normalissimo quindicenne, solo che le sue radici non sono propriamente quelle “giuste”: la madre è prematuramente scomparsa, abbandonandolo con un padre non cattivo, ma tragicamente debole e troppo indulgente con se stesso e con la bottiglia, in continuo movimento da una città all’altra alla ricerca di brevi e precarie tranquillità. Unico fievole legame affettivo sopravvissuto, quello con una giovane zia, la cui foto ormai sfocata Charlie conserva come un’autentica reliquia, nella speranza di ritrovarla un giorno più o meno lontano. Un vuoto affettivo che, come spesso avviene in casi analoghi, sarà riempito da un animale, un cavallo in questo caso, il vecchio Lean on Pete che un allenatore senza scrupoli fa correre, spesso dopandolo oltre ogni limite, in corse clandestine e in scalcinate competizioni nell’ormai cadente ippodromo di Portland.
Charlie, nel suo perenne girovagare, si è casualmente imbattuto nello scalcinato ippodromo, reliquia di un tempo che fu, prima dell’onnipresenza televisiva che avrebbe cancellato per sempre il ricordo dei grandi derby d’antan. Divenuto aiutante dello spregiudicato Del, proprietario di alcuni cavalli, tra cui Pete, lo accompagna nel suo peregrinare tra corse clandestine e vecchi ranch, dove i poveri animali sputano l’anima per far guadagnare qualche dollaro al loro ingrato proprietario. E spesso la gara vera è quella per la vita di Del e Charlie, in fuga dagli scommettitori assatanati che vogliono la loro pelle dopo aver scoperto gli squallidi trucchi del vecchio allenatore.
Charlie incontra così una variegata umanità, sempre oltre i limiti della luminosità del senso comune, una tribù di uomini e donne che vive nella penombra della marginalità, spesso segnata da vizi profondi ma capace, altrettanto spesso, di folgoranti gesti di splendida umanità. Il destino comunque è in agguato e, come succede sempre ai più deboli, i colpi saranno davvero pesanti. Il padre di Charlie, amante di una rossa piacente ma vecchiotta, viene scagliato attraverso la finestra del suo camper dal marito di questa, un samoano colossale. Le ferite non sembrano gravi, ma un taglio all’addome inflitto da una scheggia di vetro, si rivelerà fatale. Perso il padre, Charlie rischia di perdere anche il suo unico amico, Lean on Pete, afflitto da una grave patologia agli zoccoli anteriori, che il terribile Del, figura davvero degna del Fagin di Oliver Twist, ha deciso di vendere a dei macellai messicani.
A questo punto sembra che la tragedia sia completa e inarrestabile, ma fortunatamente Dickens incontra Kerouac e quello che era un classico romanzo di formazione, dai toni tristemente cupi, si trasforma in un autentico romanzo on the road, nella più classica tradizione beat.
Solo che sulla strada non troviamo i soliti beatnicks e hipsters, ma due patetiche figure steinbeckiane, degne del Pian della Tortilla, un adolescente in fuga, inquieto e disperato, alla ricerca di una zia perduta che sembra la più classica delle Chimere, e un vecchio cavallo zoppicante, che l’accompagna con la docilità del più fedele dei bastardini.
L’America, si sa, è un paese immenso, la cui sconfinata vastità è spesso piena solo di nulla, pianure a perdita d’occhio dove una stazione di servizio appare a volte come un’autentica oasi di benessere, un tesoro luccicante nella foschia tremolante del deserto. E’ in questa immensità che i due protagonisti lentamente si perdono, due vite allo sbando a cui, nel momento estremo però non manca mai un gesto imprevisto e salvifico. Ecco la lezione del più classico dei romanzi americani, quello che si affida al movimento, al girovagare come miglior risposta all’assurdità in cui sembra affondare la contemporaneità. Primo perché nelle situazioni senza via di uscita, l’unica salvezza sta nell’ andarsene, non nel fuggire ma nel cercare nuove opportunità. E’ questo lo spirito più profondo e inconfondibile di un intero paese, in cui una parte cospicua dei suoi abitanti resta perennemente in movimento. Secondo, perché le tranquille esistenze borghesi, racchiuse nei loro ben sorvegliati quartieri e circolanti in percorsi sempre identici, simili in fondo alle ruote dei criceti, poco hanno da offrire in termini di scoperte e, perché no, anche di vere illuminazioni.
E’ solo sulla strada, questo l’insegnamento di tanti classici Usa, da Kerouac a Lou Reed, che si fanno incontri, scoperte, dove si rischia di finire vittima della peggior violenza ma anche oggetto della più coinvolgente umanità. E’ sulla strada, e non nel chiuso dei loro orticelli, che alcuni dei protagonisti dei racconti di Flannery O’Connor trovavano la loro fine cruenta ma anche l’attimo finale della loro personale epifania.
Charlie Thompson non sfugge al cliché, ma ha il pregio di farlo in modo in fondo originale e con l’autentica freschezza di un quindicenne ancora digiuno della vita troppo vissuta. Certo, ad attenderlo ci sono prove di assoluta durezza, fino all’acme della perdita dell’unico amico rimasto, ma alla fine, come sempre nella tradizione dell’ingenuo ma genuino ottimismo americano, ci sarà anche per lui se non altro un momento di autentica speranza.
Willy Vlautin, con questa lunga ballata, che potremmo facilmente immaginare accompagnata dalle dolenti note della sua calda chitarra, ci ha regalato una lunga canzone d’amore, non una di quelle filastrocche per teneri amanti, ma una dura canzone di lacrime e sangue che celebra degnamente la curiosità di restare comunque vivi.
a.pass.
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