“Venire da un posto dove a definirti bastano pochi dettagli, dove poche abitudini possono riempire una vita, produce un senso di vergogna inconfondibile. Le nostre erano state piccole vite, popolate dal desiderio di qualcosa di più consistente di qualche strada sterrata e qualche piccolo sogno. E allora eravamo andati lì, dove la vita non aveva bisogno di spiegazioni e dove altri ci avrebbero detto chi dovevamo essere.” Lì è l’Iraq, l’anno è il 2004 e quello che decide chi bisogna essere è l’esercito degli Stati Uniti. Kevin Powers riassume così, in pochi tratti essenziali, le motivazioni di due ragazzi della Virginia che si ritrovano a vagare armati nelle strade di Al Tafar, governatorato di Ninawa, Iraq, i protagonsti di “Yellow Birds” (Einaudi, pag. 192, Euro 17), la sua folgorante opera prima e uno dei migliori romanzi di guerra pubblicati in questi anni.
Le lodi in questo caso si sono sprecate, Dave Eggers lo ha definito “uno dei libri più tristi letto negli ultimi anni, ma triste in un modo importante” e ha paragonato Powers a David Finkel, vincitore di un Pulitzer nel 2006 col suo reportage dall’Iraq “I bravi soldati”, altri hanno parlato di Tim O’Brien e del suo classico sul Vietnam, “Mettimi in un sacco e spediscimi a casa”. Ma i paragoni si possono allargare a piacere, fino a includere alcune delle colonne portanti della letteratura bellica americana, dal “Segno rosso del coraggio” di Stephen Crane, romanzo anch ‘esso di formazione ma nell’inferno della guerra di Secessione, fino al grande dramma bellico nel Pacifico racchiuso in “Il nudo e il morto” di Norman Mailer. Tutti esempi magnifici del raccontare la guerra al di fuori di ogni retorica, col disincanto di chi sa che, a ben vedere, tutti i dolori si assomigliano e non c’è ideologia, per quanto possente, che possa giustificare il ritorno prepotente di una barbarie incontenibile. E in Iraq non c’è nemmeno più l’ideologia, quella della fine della schiavitù che giustificava, almeno in parte, gli orrori della guerra civile, o quella della lotta alla dittatura che tentava di spiegare le tragedie della seconda guerra mondiale. In Iraq domina la menzogna, quella che ha scatenato la guerra e quella delle truppe occupanti che “liberano”, e a combattere non sono più giovani innocenti, costretti dalla leva obbligatoria, ma giovani illusi che hanno scelto l’esercito come via di fuga da una vita insignificante.
Kevin Powers, 33 anni, figlio di operai in una Virginia per molti aspetti ancora rurale e arretrata, in Iraq c’è stato per davvero, un anno come mitragliere, e ha raccontato in un’intervista che a scrivere il libro lo avrebbe indotto soprattutto la domanda che, al suo ritorno, la maggior parte delle persone ossessivamente gli rivolgeva “ ma come ci si sentiva a trovarsi laggiù?”. “Yellow Birds”, versi da una crudele filastrocca cantata dai soldati, è la sua risposta a quelle domande, ma va ben al di là del semplice memoir, diventa una storia universale che sa scendere nel profondo di ognuno e Powers, che è soprattutto un poeta, lo fa con parole che scavano dimensioni inusuali anche là dove altri vedrebbero soltanto una cupa e sordida realtà.
Bartle, il suo protagonista, ha indubbiamente molti punti in comune con l’autore: stesso luogo di provenienza e stessa scelta esistenziale, quella della vita militare, dettata soprattutto dalla noia nella tetra provincia americana, l’arruolamento come unica via di fuga da quella che appare una trappola senza uscita per tutti quelli che il sogno americano lo vedono solo dalla porta di servizio. Powers si è arruolato a 17 anni, Bartle ne ha 21, ma il suo commilitone Murph, il secondo protagonista della storia, e alla fine anche il suo centro, ne ha appena 18 e viene pure lui da un paesino sperduto del vasto sud. Si ritrovano ad addestrarsi nella neve di Fort Dix, New Jersey, uno strano modo per prepararsi alle sabbie torride della valle del Tigri, legati da un sottile rapporto di amicizia-protezione reciproca, destinato a segnarli per sempre. Terzo angolo del triangolo esistenziale che segna questa disgraziata avventura, il sergente Sterling, colui che meglio incarna la logica crudele della guerra, non un cinico, se mai uno stoico che si è formato alla dura scuola dei combattimenti moderni, fatti di agguati a tradimento, attentati suicidi e scarsa attenzione alle differenze tra civili e nemici, visto che tra i primi sempre si nascondono i secondi.
Qualcuno, come Ron Charles del Washington Post, ha criticato il libro, sostenendo che ”le parti sono meglio del tutto”, come dire che Powers, più poeta che narratore, sarebbe riuscito perfettamente a cogliere singoli frammenti, tracciando con il pennello di una parola tagliente, ma precisa e spesso lirica, una quadro toccante della vita di questi soldati smarriti nel vuoto immenso di un Iraq completamente ostile, ma perdendo spesso di vista il quadro narrativo d’insieme. E in effetti il libro risulta in qualche modo frammentario, ma l’effetto sembra completamente voluto, la narrazione si spezza, perde coerenza, segue più l’umano sentire del suo protagonista che le ragioni della storia, inevitabilmente sembra destinata a perdersi nelle circonvoluzioni di una mente a tratti disperata.
Powers, della guerra in Iraq in quanto fatto “politico”, decide di non parlare, nel libro non ci sono le ragioni delle parti in lotta, la retorica delle ideologie o un qualsiasi spirito di presunta grandezza. C’è semplicemente la narrazione del “fatto” e i sentimenti umani di chi, per varie ragioni, vi si ritrova a muoversi in mezzo. Bartle e Murph sono semplicemente due molecole in un precipitato completamete e follemente illogico, due atomi in fuga che pensano soprattutto a restare vivi. Il racconto spazia in narrazioni temporalmente diverse: c’è un prima, l’arruolamento, il pianto di una madre che non capisce, l’addestramento e l’incontro con Murph. C’è un durante, l’azione ad Al Tafar, l’avanzare in una cittadina semidistrutta, dove anche il luogo più ameno, la macchia lussureggiante di un frutteto al centro della desolazione desertica, può rivelarsi una trappola fatale. E c’è inevitabilmete un dopo, il ritorno a casa col fardello di quanto si è visto, di come le cose ti abbiano cambiato dentro per sempre, di quanto sia impossibile comunicarlo a quanti non abbiano vissuto le medesime esperienze. In più, per Bartle e Sterling, c’è il peso insopportabile di sapere cosa realmente è successo a Murph, di quanto hanno visto perpetrato sul suo corpo e di cosa sono stati costretti a fare per puro senso di umana pietà.
La guerra raccontata da Powers non è mai quella delle maiuscole, non ci sono nel suo libro riflessioni che inducano a prese di coscienza più vaste, non c’è nemmeno una critica aperta al sistema che l’ha generata: Bush e la sua cricca restano sempre sullo sfondo, per i soldatini che si muovono come innocenti pedine sullo scacchiere del mondo sono distanti come gli dei che, dall’Olimpo, decidono di chi sarà il corpo destinato ad intercettare la prossima pallottola. Altrettanto indifferenziati sono i nemici, anonimi nella folla che osserva distante l’avanzare di questi “liberatori” travestiti da robot di guerre molto poco stellari. Quello che emerge con solida chiarezza è l’efferatezza dei metodi, dall’una e dall’altra parte, la crudeltà indifferenziata che scatena offesa e reazione, la paranoia costante che offusca l’esistenza, quella stessa che, per anni, una volta ritornato alla vita civile, ti farà osservare la riva tranquilla di un fiume alla ricerca di un riparo sicuro dal fuoco nemico. Un’ossessione da cui sarà difficile liberarsi, stampata nel cervello dalle immagini, quelle sì reali, del sangue, delle viscere, degli escrementi, degli elementi più basilari della vita e della morte che la guerra rende crudelmente evidenti e onnipresenti.
Il pregio maggiore del libro di Powers sta nell’aver umanizzato tutto questo: non si è limitato a raccontarci le sue storie dell’Iraq, ci ha portato dentro alle sue piane assolate, alla sua desolazione umana e materiale, e lo ha fatto restituendo all’esperienza il suo senso di umanità più profonda. Con lui noi viviamo dentro a Bartle, ne seguiamo attoniti il lento avanzare al centro di mille possibili imboscate, ascoltiamo il suo cuore battere all’impazzata o farsi tenero per un impeto improvviso di umana pietà o di fraterna amicizia. Quello di Powers non è mai, comunque, semplice voyerismo, non offre la visione gratuita di massacri e tanto meno un sadismo bellico a buon mercato, ad uso di quanti sognano sensazioni forti standosene comodamente in poltrona.
“Yellow Birds” è prima di tutto, come detto, un libro poetico, un testo doloroso sull’amicizia, sulla follia e sulla solidarietà che pure permane anche nelle situazioni più orribilmente sconvolte. Un libro di guerra in cui, per fortuna, vediamo poco della guerra e molto più degli uomini che la combattono. Un libro in cui la follia trova una personificazione scolpita nella pelle stessa dei suoi protagonisti. Sarà Murph, nella sua fine grottesca, a incarnare alla perfezione il senso stravolto dell’incubo che tutti stanno vivendo in Iraq. Un gesto estremo di rivolta, ma disperato e autolesionista, che non porterà a nulla, se non a segnare per sempre il destino dei suoi due compagni, il sergente e l’amico, accumunati in un ultimo gesto di estrema pietà, ma pure di assurda insensatezza, almeno secondo i dettami dei regolamenti.
Con “Yellow Birds” Kevin Powers ha scritto indubbiamente un libro potente, estremamente maliconico come dice Eggers, ma anche terribilmente umano, troppo umano nel senso buono del termine, una discesa agli inferi al cui termine non ci attende nessuna liberazione ma, se non altro, uno sguardo meno disperato su noi stessi.
Pass.
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