Quando, l’anno scorso, gli venne assegnato il premio Nobel per la Letteratura, non furono pochi quelli che storsero apertamente la bocca : se non autore di regime, Mo Yan veniva ritenuto comunque scrittore troppo tenero nei confronti del potere cinese, sicuramente condiscendente verso l’attualità del suo paese, da cui preferiva spesso rifugiarsi in un passato abbastanza remoto da essere, comunque, glorioso. Con “Le Rane”, il suo ultimo romanzo pubblicato (Einaudi, pag. 382, € 20), Mo Yan sembra implicitamente rispondere a tutti i suoi potenziali detrattori: questa volta l’argomento è scottante e relativamente recente e l’ironia con cui affronta l’annosa questione del controllo delle nascite in Cina, seppur bonaria e mai troppo corrosiva, non fa comunque sconti a nessuno.
Certo, Mo Yan non è Gao Xingjan, l’altro grande scrittore cinese contemporaneo, dissidente ed esule in Francia, autore con “Il libro di un uomo solo” della più affilata e dirompente critica degli anni della Rivoluzione Culturale, né condivide con un Ai Weiwei la battaglia politica dell’opposizione militante al regime. Piuttosto che lo scontro aperto, Mo Yan sembra prediligere la convivenza, difficile ma comunque non impossibile, non si nega la passionalità della critica, ma sa benissimo come avvolgere nel velluto il pugno di ferro. E comunque la qualità letteraria della sua opera rimane sempre altissima, capace di volare al di sopra delle contingenze, confermandolo come un autore di enorme spessore, capace di unire, in un solo gesto della sua penna raffinata, realtà apparentemente inconciliabili, la tradizione del romanzo occidentale e quella classica cinese, gli schemi dell’opera modernista e quelli del teatro popolare del suo paese, in uno stile comunque autonomo e personale che non snatura nessuna delle sue molte radici.
Non a caso nelle motivazioni del Nobel lo si dipinge come un geniale costruttore di un mondo, inventore, come Faulkner e Marquez prima di lui, di un autentico microcosmo, quella Gaolin in cui si svolgono tutte le sue storie e che non è semplicemente una parafrasi della Cina, ma piuttosto un suo prolungamento coerente nel regno del fantastico. Come Macondo o la contea di Yoknapatawpha , Gaolin vive di una vita propria, che attraversa i decenni di storia cinese con una sua intima e logica coerenza, offrendo un panorama umano e sentimentale che ha il dettaglio minuzioso di certe miniature satiriche. E in questa landa immaginifica dominano spesso incantevoli figure femminili, dalla fantastica protagonista di “Sorgo Rosso” che gli ha dato per la prima volta visibilità mondiale, fino alla Wan Xin di questo suo ultimo romanzo, maschera umanamente contradditoria e tragica dietro cui si nasconde molta parte della storia del partito comunista cinese degli ultimi decenni.
Ancora una volta Mo Yan predilige la via indiretta, non attacca frontalmente le contraddizioni palesi e i contrasti della politica demografica del partito, preferisce invece incarnarli in una umanissima figura di donna; all’ analisi lucidamente feroce delle contraddizioni, predilige il racconto pacato di una vita contrastata e difficile, ma non è per questo che la sua critica risulta meno efficace, anzi se mai aggiunge pathos laddove la semplice logica non basterebbe comunque a spiegare.
Wan Xin, donna di Gaolin partecipe fin da ragazza alle disavventure spesso tragiche del suo paese, sceglie per il suo riscatto la via della scienza e della medicina, complice anche l’incombere di un’eroica figura di padre che fu allievo del grande Norman Bethune. La donna, coerentemente con le dottrine del partito che, nei primi anni del dopoguerra iniziò una vasta campagna di miglioramento della vita contadina, combatte orgogliosamente la battaglia della conoscenza contro il pregiudizio. Da ginecologa sue avversarie dirette diventano le mammane che, nella realtà contadina di Gaolin, erano in pratica le uniche ostetriche operanti, spesso con metodi alquanto bizzarri. Wan Xin vince la sua battaglia, anche se a volte i suoi metodi risulteranno quanto meno eccessivi: non tutte le mammane erano fattucchiere e anzi, spesso, la pratica aveva insegnato loro molte più cose della semplice lettura dei tomi medicali.
Comunque il progresso avanza anche a Gaolin e grazie a Wan Xin migliaia di bambini vedono felicemente la luce, mentre le morti per parto subiscono un calo vertiginoso. Insomma sembrano gli anni della luna di miele tra il partito, i suoi artefici, e gli abitanti della mitica provincia. Sono anche gli anni delle comuni agricole, della collettivizzazione e di una stratificazione sociale finalmente all’ incontrario: a fare merito non sono più gli avi benestanti, ma al contrario la povertà dei semplici lavoratori della terra.
Wan Xin, comunque, non è una semplice allegoria, ma una donna vera, seppur immaginata, ed ha le sue immancabili avventure e disgrazie. Innamorata di un avvenente pilota dell’aeronautica militare, cadrà inevitabilmente in disgrazia quando costui fuggirà con il suo aereo a Taiwan. Ma la coraggiosa ginecologa saprà comunque riscattarsi e rinascere, superando anche l’inevitabile caccia alle streghe innescata dalla rivoluzione culturale, di cui sarà un’inconsapevole vittima. Mo Yan descrive in questo caso anche uno dei tanti processi pubblici di autocritica, ma lo fa ancora una volta pigiando più sul tasto dell’ironia, piuttosto che su quello della ferocia. Una critica vellutata, su un argomento comunque permesso….
Ben diverso è il dramma che si consuma quando il maoismo ancora imperante lancia la sua campagna di contenimento delle nascite. Nelle lande di Gaolin, come nel resto della Cina, il numero della prole, con l’affermarsi della collettivizzazione, aveva perso importanza, ma restava fortissimo il problema della discendenza e della necessità di avere almeno un figlio maschio che continuasse il nome. Così chi aveva solo figlie femmine continuava a provarci, fino al compimento dell’agognato obbiettivo. Ma con l’affermarsi della nuova politica demografica, questi estemporanei tentativi diventavano apertamente illegali.
Ed è cosi che la povera Wan Xin, da vestale della buona nascita, incarnazione vivente della dea della fertilità, si trasforma in spietata cacciatrice di madri illegali, abortista incallita e apostolo della spirale. Ironicamente, la prima campagna per il controllo della crescita della popolazione, lanciata nel 1973, fu battezzata, appunto, “Wan Xi Shao”, e predicava matrimoni in tarda età e famiglie ristrette. Ma con l’avvento di Den Xiao Pin al potere le aspettative governative si fanno più pressanti, la nostra povera ginecologa si dedica ormai molto meno a far nascere bimbi, ben più impegnata a sopprimere tutti quelli che vorrebbero venire al mondo senza essere debitamente programmati e autorizzati.
Sono tutte queste vite mai nate che la tormentano nel sonno, quelle “rane” il cui gracidare ricorda il pianto disperato di altrettanti neonati mai venuti alla luce, le anime di quei non nati condannati ad un limbo che assomiglia ad una ben triste palude. Il racconto, da ironico, si fa tragico: molti aborti tardivi si trasformano in altrettanti omicidi sia della madre che del nascituro, la ginecologa, un tempo vessillo del progresso della scienza, diventa ora il simbolo di un potere che decide in totale solitudine e autonomia, schiacciando sotto il suo tallone di ferro chi non si adegua.
Ma nel frattempo la Cina continua a cambiare: la nuova dirigenza, accanto alla durezza della politica del figlio unico, inaugura contemporaneamente quella della incontenibile crescita economica. Finite le ristrettezze maoiste e masochiste, il paese si lancia in una strategia di benessere diffuso, la ricchezza non è più una colpa, sempre che sappia crescere all’ombra protettiva del partito. E anche Gaolin cambia, non più contadini disperati che inseguono come un sogno la nascita dell’erede maschio, ma giovani coppie che non hanno più tempo da dedicare alla gravidanza e che, per questo, si affidano a madri surrogate, giovani povere che diventano uteri in affitto.
La nuova Cina è anche questo, un permanere delle antiche rigidità, ma anche una capacità di aggirare i divieti grazie al nuovo potere corruttivo del denaro. Il vecchio insomma non muore, ma il nuovo l’aggira e in fondo non si dimostra affatto migliore. Mo Yan non si avventa più di tanto contro l’avverarsi dei tempi nuovi, come non si accaniva mai troppo contro le ingiustizie di quelli antichi. Nella sua eterna Gaolin i tempi si susseguono e poco o nulla sembra cambiare, anche se le novità a volte vanno pagate a caro prezzo. “Le Rane”, probabilmente non è il suo miglior romanzo, ma un pregio indubbiamente ce l’ha: mostrarci come un grande scrittore sappia dialogare con il proprio tempo mantenendo un distacco che non è furbo disimpegno o, peggio, astuta equidistanza, ma piuttosto serena lucidità e pacata ironia, pregi comunque rari e a loro modo preziosi.
a.pass.
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