Qual è il confine tra reale e irreale, esiste davvero una separazione, netta e invalicabile, tra queste due dimensioni? E poi, cos’ è reale e cosa no, c’è una sola, inequivocabile realtà, oppure infinite, quanti sono i soggetti che la abitano? Murakami Haruki è sicuramente lo scrittore contemporaneo che, più di ogni altro, ha scelto di danzare con le parole su questo confine immaginario, sia che le sue opere siano etichettabili come “realiste”, sia, come accade assai più spesso, risultino assolutamente irrealistiche. “A sud del confine, a ovest del sole”, un’opera del ’92 che torna oggi nelle librerie italiane in una traduzione completamente rinnovata (Einaudi, pag. 204, Euro 20), rappresenta forse una delle sintesi meglio riuscite tra i due versanti di questo immaginifico autore.
A stretto rigore, il romanzo appartiene di diritto alla vena più realistica dello scrittore giapponese, quella da cui è scaturito il capolavoro che lo ha reso universalmente noto, in patria e fuori: quel “Norwegian Wood” che, oltre ad essere stato un insuperato best seller, ne ha sancito lo status di scrittore intimista e delicato, un autentico poeta dei sentimenti, di cui si rivela un sensibile e profondo conoscitore. Ma questo versante, pur essendo il più popolare, resta sicuramente anche il meno praticato da Murakami che, nella maggior parte delle sue opere, propende invece per un irrealismo spinto alle estreme conseguenze. Nei suoi romanzi maggiori, infatti, il confine tra le due dimensioni, reale e fantastica, viene violato in continuazione, c’è un traffico intenso e incontenibile nelle due direzioni, mentre la credibilità tende a subire colpi spesso tramortenti. Ci ritroviamo così in mondi dove gli uomini parlano con i gatti e pure con le pietre, esistono foreste impenetrabili in cui il tempo non solo si è fermato, ma addirittura riesce a scorrere a ritroso, quadri che si animano e villaggi popolati da strani esseri e mandrie di unicorni, mentre nel pieno centro di Tokyo, nel cuore di un grande grattacielo di cemento e cristallo, si apre un armadio da cui si può accedere ad un universo sotterraneo popolato di ombre malefiche.
Il Murakami di questo splendido racconto, invece, tiene a freno la propria fantasia scatenante, sembra abbandonarsi alla semplice nostalgia venata di malinconia, ci narra una storia qualsiasi degli anni ’60, una rivisitazione in sedicesimo, e in salsa wasabi, dell’immancabile Holden, uno dei suoi libri cult più idolatrati. La storia è quella di un giovane segnato a suo modo da un’unicità, almeno per i tempi in cui è nato: quella di essere figlio unico, cosa che all’ epoca era un’autentica rarità e lo pone, in qualche modo, in un mondo separato rispetto ai suoi coetanei.
Per il giovane Hajime la condizione di solitario, almeno nell’intimità, assicura una vena di autentica introspezione che comunque lo diversifica dai suoi chiassosi coetanei, abituati a convivere in famiglie numerose e fin troppo animate. Inoltre lo mette casualmente in relazione con una sua giovane vicina, Shimamoto, che alla singolarità dell’essere anch’ essa figlia unica, unisce la condizione particolare di portatrice di un handicap umiliante per una ragazzina comunque affascinante: quello di una leggera zoppia dovuta a una gamba segnata precocemente dalla poliomielite.
Tra i due si stabilisce un legame che pare andare oltre i limiti dell’età e fa dell’isolamento sociale in cui inevitabilmente si sentono costretti, un’autentica risorsa. Non che succeda molto, a ben vedere, la loro relazione si limita a lunghe passeggiate da scuola e ritorno, segnate dal ritmo claudicante della ragazza, a intensi pomeriggi, in casa della giovane, trascorsi soprattutto ad ascoltare i dischi del padre di lei, tra cui li affascina una canzone di Nat King Cole, appunto quella che dà il titolo al romanzo. Eppure tra i due, anche se impercettibile, scorre già un intenso fiume di sensazioni, un torrente vorticoso di sentimenti destinato ad affiorare soltanto per un attimo, il tempo di una fugace stretta di mano, ed è tutto.
La vita di Hajime, come quella di ognuno di noi, si incarica poi di mettere fine alla vicenda: seguono cambi di scuola e di città, i due si perdono inevitabilmente di vista, il giovane fa la sua strada, scopre i primi amori e le prime esperienze sessuali, attraversa in un baleno i chiassosi anni ’60, quelli delle contestazioni violente nelle Università, come tanti suoi coetanei si appassiona a rock e jazz, letteratura contemporanea, occidentale e non, cinema ed arti varie. Fino ad approdare ad un noioso lavoro di correttore di libri scolastici e, infine, ad un matrimonio piuttosto fortunato che, oltre a una bellissima moglie, gli regala due splendide figlie e un suocero facoltoso, che prima lo assume e poi lo aiuta a realizzare il sogno della sua vita, quello di un club jazz tutto suo.
Insomma, tutto sembra volgere al meglio, Hajime si è lasciato alle spalle una giovinezza piuttosto comune e si lancia nella vita quotidiana armato delle migliori intenzioni. Resta solo quel ricordo a suo modo disturbante, quell’ occhiata lanciata in un altrove che, a sud del confine e a ovest del sole appunto, ha intravisto nello sguardo oscuro di quella ragazzina claudicante e a suo modo sottilmente diversa.
Ancora una volta, come sempre accade nell’ universo di Murakami, il reale si rivela molto meno “sicuro” di quanto ci aspetteremmo, anche qui si aprono, nella riposante tranquillità del quotidiano, botole che conducono nel chissà dove. In questo caso, a farci da guida non sono spiritelli che assumono di volta in volta i sembianti più strampalati, come in molti dei romanzi fantastici di Murakami, ma il volto assai più enigmatico e accattivante di una misteriosa presenza femminile.
In fatto di personaggi femminili Murakami è un maestro assoluto: la Shimamoto di questo racconto è strettamente imparentata con tante altre protagoniste dei libri dello scrittore giapponese, a partire dalla tenera e nevrotica Naoko che illumina le pagine più commoventi di Norwegian Wood. Come quella, anche Shimamoto fa del non detto, dell’appena accennato, della fragilità intuita dietro un’apparenza irraggiungibile e sfuggente, le armi di una seduzione irresistibile.
Il suo inaspettato ricomparire, dopo un’assenza durata decenni, è un’irruzione irresistibile di irrealtà che mina ogni senso di stabilità, una ventata di immaginazione che sconvolge ogni tranquilla certezza del protagonista, che si accorge, in modo fin troppo subitaneo, di quello che da sempre mancava alla sua scena per dirsi in qualche modo completa. Murakami è un grande maestro quando si tratta di far saltare le apparenze e precipitare il lettore in una confusione estremamente creativa. Sia che si serva di complicati e fantastici marchingegni, sia che, come in questo caso, prediliga i toni sfumati e suadenti, apparentemente più soffici e credibili, la sua scrittura, pur restando sempre estremamente semplice e concreta, sa rovesciare le apparenze, restituire il senso di mistero alle situazioni in fondo più convenzionali e scontate.
Di Shimamoto, la protagonista di questo magico racconto, quasi nulla viene detto, di lei alla fine sapremo poco più di quanto dichiarato agli esordi: come compare all’ improvviso, così in modo altrettanto subitaneo sarà destinata a sparire, lasciando però ogni cosa, almeno per il protagonista, mutata per sempre. Quello che Hajime, ormai quasi quarantenne, è destinato a scoprire gettando un’occhiata nello sguardo, profondo, ombroso e distante della sua antica compagna, non potrà mai essere rivelato fino in fondo ma, contemporaneamente, ha il potere di rendersi assolutamente rivelatore.
E’ qui che Murakami compie una sintesi notevole nelle sua duplice natura di scrittore: è nello sguardo smarrito di Shimamoto che si realizza, per un attimo, l’unione dei suoi due mondi, quello della realtà malinconica e nostalgica dei suoi racconti più realistici, e quella surreale e sulfurea di quelli più marcatamente dedicati al culto del fantastico. Cosa vede Hajime negli occhi, colti in un momento di estremo abbandono, della sua amante ritrovata per un attimo e subito persa per sempre?
Ecco, sono davvero come due pozzi aperti su un’altra realtà, due vuoti inquietanti che pure invitano a perdersi dentro, sono l’esatto equivalente dei passaggi che in altre storie di Murakami si aprono continuamente nei muri di una realtà che mai si potrebbe immaginare più fragile. Ma sono anche il retaggio più marcato di cultura orientale in uno scrittore che si sa particolarmente appassionato di occidente, di cui da sempre idolatra musica e cultura. Sono, in fondo uno sguardo diretto sul Nirvana, un’occhiata subitanea all’ attrazione per il vuoto, e in fondo per l’annientamento stesso della morte, l’attrazione fatale per il nulla cosmico che fa capolino, in modo inaspettato, nei punti più improbabili del nostro tranquillo universo di passanti indaffarati e distratti.
Hajime non sa resistere al richiamo, è attratto da quello sguardo come da un maelstrom vorticante e irresistibile, vorrebbe scomparirvi dentro e in effetti fa il possibile per rinunciare al proprio mondo di tranquillo e inutile successo per un annientamento che ha il sapore di una scelta totalizzante. Murakami non è scrittore di grandi ideali e di scelte combattive, descrive con nostalgica passione gli anni della sua formazione, ma si tiene sempre a debita distanza dagli avvenimenti, non è mai un militante, anche negli anni ruggenti delle Università in fiamme preferisce sempre un ruolo più defilato, molto più attento a quello che accade dentro di sé piuttosto che a quello che gli si manifesta attorno.
Shimamoto, questa bellissima vestale dell’altrove, alla fine è destinata a sparire nel nulla da cui per un attimo è ritornata: il suo è un dono d’amore definitivo, il segno di un sacrificio che sa di negarsi per evitare l’annientamento dell’amato. Alla fine andandosene restituisce al giovane Hajime la sua vita, ma segnata per sempre: nulla sarà più come prima, la realtà continua ad esistere, ma ha perso ormai i muri possenti che sembravano contenerla e ha rivelato, una volta per tutte, la sua intima e irreparabile fragilità. Scatenando la sua voglia di assoluto.
Pas.
prova