L’inquadratura iniziale è una scena famosa: esterno della piccola scuola di Bodega Bay, si sentono in lontananza le voci dei bimbi che recitano una filastrocca, un corvo nero scende dal cielo e si posa sul castello di tubi al centro del cortile. Altri lo seguono e in un attimo la struttura è letteralmente nereggiante di ali e di becchi. Ma, questa volta, a guardarli con terrore non c’è l’elegante Tippi Hedren degli “Uccelli” , ma un annichilito Salman Rushdie che ascolta il primo corvaccio annunciarsi al telefono, una giornalista della BBC che gli rivolge la domanda tipica del cretinismo informativo: che effetto fa sapersi condannati a morte dall’ayatollah Khomeini?
Rushdie cade letteralmente dalle nuvole, non diversamente dal Saladin Chamcha ( il kafkiano Gregor Samsa trasformato, invece che in un insetto, in diavoletto anglo-indiano) protagonista del suo ultimo romanzo fresco di stampa, “ I versi satanici”. Nemmeno immagina che, da quel momento, inizierà per lui un lungo tunnel di clandestinità destinato a durare più di dieci anni.
E’ il giorno di San Valentino del 1989 e la mattinata si apre comunque sotto una luce tetramente malinconica: Salman deve partecipare ai funerali dell’amico Bruce Chatwin, con cui aveva condiviso l’esperienza del viaggio in Australia da cui era nato quel capolavoro che è “Le vie dei canti”. Al ritorno a casa, Rushdie trova ad attenderlo la polizia che gli conferma la gravità della minaccia e gli comunica l’impossibilità di rientrare tranquillamente nel suo appartamento. Il vecchio ayatollah, prossimo ormai a morire, ha lanciato contro di lui una fatwa, una sorta di maledizione con cui invita ogni mussulmano devoto ad ucciderlo. Il capo d’accusa: blasfemia nei confronti del Profeta come risulta dalla lettura del suo ultimo romanzo appena pubblicato, in cui uno dei personaggi, immaginando di essere l’arcangelo Gabriele, rievoca le storie della nascita dell’Islam nello stile pacchiano delle grandi produzioni di Bollywood.
Comincia con questa immagine l’ultimo libro di Rushdie, “Joseph Anton”, un imponente memoir dedicato al suo decennio in fuga dai terroristi islamici, ma anche il racconto di una battaglia per la libertà contro tutti i pregiudizi della religione e del conformismo fideista, la storia di una resistenza civile che anticipa, in modo non solo simbolico, quello che sarà lo scontro più tragico in cui verrà battezzato nel sangue il nuovo millennio. Joseph come Conrad, Anton come Chekov, nasce così lo pseudonimo con cui, da allora in avanti, verrà identificato Rushdie durante il lungo periodo di protezione, anche se gli agenti a lui preposti finiranno, con suo grande disappunto, per preferire un più familiare Joe. E nei nomi, comunque, si nasconde sempre un destino: non a caso il padre di Salman, il cui vero cognome era un autentico scioglilingua, decise di cambiarlo nell’assai più semplice Rushdie in onore del grande Ibn Rushd, colui che in occidente è noto come Averroè, che Salman assumerà come icona protettiva nella lunga battaglia che lo attende tra la luce della ragione e i corvi neri dell’intolleranza e della fede obnubilata.
La canea provocata dalla fatwa si scatena quasi subito: cominciano i cortei urlanti che invocano la sua morte e bruciano il suo fantoccio sulle piazze di mezzo mondo. E pure la compassata Inghilterra non sarà da meno, con i locali leader mussulmani scatenati all’inseguimento del radicalismo iraniano. Per una sorta di omertà infra religiosa anche i rappresentanti degli altri culti in qualche modo si accodano: cattolici, anglicani, gli stessi induisti, tutti pronti a dire che sì, in fondo Rushdie se l’è cercata, che non si offendono impunemente i sentimenti religiosi di chicchessia. Il governo conservatore, guidato dalla lady di ferro Margareth Thatcher, deve accorrere in sua difesa, ma non mostrerà mai troppo entusiasmo per la cosa. Solo con l’avvento al potere dei laburisti, molti anni dopo il lancio della fatwa, le cose cominceranno significativamente a cambiare per lo scrittore.
Inizia così un penoso tira e molla con le forze di sicurezza inglesi: Rushdie vorrebbe, nella maniera del possibile, continuare una parvenza di vita normale, i poliziotti invece, preferirebbero trasformarlo in un autentico recluso, costretto alla solitudine ed a cambiare continuamente residenza. La stampa, nel frattempo, fa opera in molti casi di killeraggio, ingigantendo le presunte spese della sua protezione e non nascondendo critiche velenose alla personalità di un autore che, non lo si dice apertamente ma a volte lo si pensa, oltre a risultare arrogante e supponente, ha pure il difetto di non essere neppure inglese.
Fortuna che in sua difesa si coalizzano immediatamente le forze della letteratura mondiale, in un susseguirsi di iniziative che terranno viva, per tutti i dieci anni della vicenda, la fiamma della protesta in nome della libertà e della lotta contro la bestialità del sopruso. Perché, come scrive Rushdie, non si tratta semplicemente di difendere la sua vita, ma soprattutto di non concedere a una banda di terroristi barbuti il diritto di decidere cosa possiamo o non possiamo leggere e scrivere. Un’ opera di impegno civile in cui si distingueranno particolarmente gli amici inglesi Arold Pinter, Ian McEwan e Martin Amis e gli americani Paul Auster e Susan Sontag tra i moltissimi altri. Nasce Articolo 19, organizzazione espressamente dedicata a fare pressione sui governi perché intervengano presso l’Iran per far cessare la minaccia.
Khomeini nel frattempo è passato a miglior vita, ma non è che i suoi successori mostrino alcun segno di ravvedimento, anzi. Pochi tra ayatollah e fanatici vari sembrano comunque aver letto davvero il libro, visto che l’accusa di blasfemia appare per molti aspetti pretestuosa. Se mai dispiace assai di più ai fanatici credenti lo spirito giocosamente laico con cui Rushdie si fa allegramente beffe delle convinzioni strampalate comuni a tante fedi, e soprattutto, non dev’essere piaciuto al torvo Khomeini il crudele ritratto che di lui fa nel romanzo un Rushdie dalla lingua particolarmente puntuta e velenosa, dipingendolo come un mostro immane che, accovacciato trionfante nei giardini del palazzo dello Scià, si appresta a divorare un popolo che si getta fidente nelle sue fauci.
Non mancano comunque, nemmeno in Occidente, i detrattori che decidono di scendere nell’agone contro Rushdie, spendendosi in difesa della pretesa sensibilità degli offesi credenti: il caso più conosciuto e clamoroso tra gli scrittori sarà quello di John Le Carrè, osannato autore della “Talpa”, che avrà parole di fuoco sui Versi e il loro autore. Parole regolarmente smentite anni dopo, a cose finite, comunque sempre con colpevole ritardo. Mentre un posto di riguardo, nella canea urlante dei difensori dell’ultima ora dell’offeso profeta, se lo ritaglierà il cantante Cat Stevens, convertitosi all’Islam e all’imbecillità con il fervore di un neofita.
La lotta di Rushdie è comunque non solo contro gli anonimi terroristi che minacciano la sua vita. Minacce tutt’altro che campate in aria, per altro: in Italia il suo traduttore Ettore Capriolo sarà gravemente ferito, meno fortunato quello giapponese, che verrà ucciso in un agguato, mentre l’editore norvegese dei Versi si prenderà parecchie pallottole nella schiena, riuscendo comunque miracolosamente a salvarsi. Rushdie, nelle sue diverse residenze segrete continuamente cambiate, deve fare i conti con la paura, vivere a stretto contatto di gomito con squadre di agenti armati fino ai denti e, nonostante tutto, riuscire a mandare avanti la sua vita privata e, possibilmente, riprendere a scrivere. Con l’aiuto degli amici più fedeli riesce in qualche modo a mantenere un minimo di relazioni sociali e, dopo un blocco di parecchi mesi, riuscirà a rimettersi a scrivere per comporre un’opera dedicata all’amatissimo figlio Zafar, “Harun e il mare delle storie”, che segnerà comunque il suo ritorno alle stampe, anche se con un racconto “per bambini”.
I lunghi anni della fatwa, come racconta in questo memoir, saranno così scanditi dalla lotta per recuperare lentamente un proprio spazio vitale, per avere il diritto a recarsi a ritirare i vari premi letterari che nel frattempo continua a ricevere, per partecipare alla presentazione dei suoi libri, per presenziare ai dibattiti che, in suo nome, tengono alta la fiaccola della lotta civile contro ogni forma di caccia alle streghe. Mentre gli ayatollah, proseguendo nel loro delirio, alzano la posta e promettono somme sempre più cospicue ai suoi potenziali assassini, buona parte del mondo civile si mobilita perché la battaglia in corso non è comunque di poco conto. In ballo c’è niente di meno che uno dei principi che in qualche modo danno un senso alla convivenza occidentale, quello della difesa della libertà di opinione non vincolata a nessuna presunta sensibilità di credenti e non. Una battaglia certo non facile, visto che spesso gli argomenti degli avversari non si limitano alle chiacchiere, ma passano direttamente alle vie di fatto. Rushdie, non diversamente dal profeta del suo racconto, che per un attimo sembra cedere alle lusinghe degli idolatri inserendo i famosi versi satanici nel testo del Corano, cede anch’egli alle suggestioni della mediazione e tenta un accordo impossibile con i suoi detrattori. Ne uscirà umiliato e frustrato e deciso più che mai a riprendere la propria battaglia senza più alcun tentennamento: coi fanatici non c’è intesa possibile, ma solo resistenza senza cedimenti di sorta.
Alla fine, comunque, lo scrittore sembra vincere la sua battaglia. L’edizione tascabile dei Versi vede finalmente la luce dopo un lunghissimo contenzioso con le case editrici, preoccupate delle possibili conseguenze per la loro sicurezza. Escono nuovi romanzi di un ritrovato Rushdie brillante scrittore, anche la sua vita privata riprende il suo normale e un po’ caotico corso. Abbandonata la seconda moglie Marianne, che in qualche modo vedrà il proprio equilibrio mentale progressivamente compromesso dalla vicenda, avrà modo di costruirsi una nuova famiglia con la terza moglie Elizabeth, da cui avrà il secondo figlio Milan, fino all’ultimo matrimonio, il meno fortunato, con la bellezza stratosferica di Padma Lakshmi, che lo abbandonerà infine per trasformarsi in una professionista della caccia ai vecchi miliardari. Insomma, nonostante tutto, Rushdie continua ad essere se stesso e con il passare degli anni acquisisce sempre più la consapevolezza che la sua battaglia ha un significato che va ben al di là della semplice vicenda personale Sarà il nuovo millennio, con l’attentato alle torri e gli assalti terroristici a Londra e Madrid, a mostrare come la condanna contro di lui non era semplicemente il frutto dell’astio casuale di un ayatollah inacidito, ma profeticamente l’inizio di un ben più tragico e complesso percorso di guerra.
Non tutti l’avevano a suo tempo capito: a Rushdie farà male, in particolare , il bando imposto contro di lui dal suo stesso paese natale, l’India, in cui per anni non potrà più mettere piede, e il fatto che molti scrittori indiani prendessero purtroppo la cosa sottogamba o, addirittura, gli si schierassero apertamente contro. Come se il problema non fosse stata l’assurda condanna a morte pronunciata contro uno scrittore e il suo libro, ma il fatto che qualcuno si fosse permesso di scrivere attorno alle problematiche religiose senza mostrare il dovuto riguardo. La storia, ripetendosi come sempre letteralmente in farsa, ripercorrerà con le famose vignette lo stesso identico percorso e, ancora una volta, rivendicherà le sue vittime sacrificali e riprodurrà, purtroppo, lo stesso dibattito.
Ma come difendersi dalla furia cieca del fanatismo, affamato di vendetta contro quanti osano mettere in discussione i suoi dogmi? Rushdie, dopo dieci anni di vita clandestina, quando può finalmente, cessata la minaccia, tornare alla luce del sole, ha elaborato una propria visione delle cose in qualche modo rasserenante, una visione in cui la letteratura, per quanto spinta ai margini dalle grandi potenza che dominano sulla terra, non ha comunque nulla di marginale. “La letteratura – scrive nella pagine finali del suo libro – ambisce ad aprire l’universo, ad aumentare, anche impercettibilmente, la somma totale di ciò che gli esseri umani sono in grado di percepire, capire e, in ultima analisi, essere. La grande letteratura giunge ai confini di ciò che è noto ed esercita una pressione contro i limiti della lingua, della forma e delle possibilità, così da rendere il mondo stesso un luogo più ampio di quanto non fosse prima”.
In un tempo in cui purtroppo molti uomini ambiscono nuovamente a rinchiudersi in limiti e confini, laddove il diverso viene ancora additato come un pericolo e dove i dogmi rischiano di trasformarsi nelle mura di prigioni in cui si vorrebbe racchiudere ogni forma alternativa di intelligenza e creatività, la battaglia di Rushdie resta ancora e più che mai quella di tutti noi.
a.pas.
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