In cupi tempi di trumputinismo dilagante come gli attuali, costellati da idioti di varia etnia alla disperata ricerca di improbabili perdute sovranità, nemici dichiarati di ogni alterità alla loro povertà identitaria, un libro come questo può davvero diventare un’ossigenante boccata d’aria fresca.Perchè “Il Simpatizzante” (Neri Pozza, 511 pp. 18 euro) è il libro di un giovane vietnamita americano, nato nel villaggio di Ban Me Thuot e da lì fuggito con i genitori all’età di 4 ani, per approdare nel 1975 prima in Pennsylvania e giungere infine a San Josè in California, dove è diventato un apprezzato docente universitario.
Insomma, una vera contraddizione vivente per l’America trumpiana, poco avvezza ad amare gli immigrati. Ma Viet Thanh Nguyen non si è limitato ad approfittare passivamente del benessere Usa, si è messo in testa di diventare addirittura un grande scrittore americano, vincendo con questo suo libro di narrativa il Pulitzer per il 2016.
Niente male per un profugo, per di più di un paese che gli americani preferirebbero non ricordare perché legato a pessime memorie. Libro dedicato a drammatiche vicende, l’opera di Nguyen non cede però alla tristezza, anzi è animata da una profonda vena satirica, a tratti addirittura una vera vis comica. Numi tutelari risultano alla fine due guide d’eccezione, Joseph Conrad, non quello di Cuore di Tenebra ma piuttosto quello dell’Agente Segreto, e il Graham Greene, inevitabilmente, dell’Americano Tranquillo ma anche dell’agente all’Avana.
Scrittura anglosassone, dunque, ma mente divisa, perché il libro non celebra per nulla le pretese gioie del melting pot, ma piuttosto le angosce della divisione, la mostruosità di una natura bicefala che fatica a conciliarsi. Il capitano, protagonista della storia di cui mai conosceremo il nome, annuncia da subito la sua spaccatura congenita: è un vero bastardo, figlio di due culture opposte e contrapposte, la madre una povera cameriera vietnamita, il padre, che mai lo riconoscerà, un sacerdote francese. Spaccatura vissuta come colpa e mai perdonata, che si raddoppia con la divisione del paese, il nord comunista e il sud coloniale, prima francese e poi americano. Per quadruplicarsi infine con il nostro, aiutante di campo del comandante della sicurezza sud vietnamita, e spia in pectore per il nord. Insomma, in fatto di contraddizioni interiori non si fa davvero mancare nulla.
L’incipit è drammatico: sono le ultime ore della Saigon americana, con i vietcong alle porte della città e gli abitanti in fuga che si ammassano nella speranza di salire su uno degli ultimi elicotteri che fanno la spola tra il tetto del consolato Usa e la fuga verso le Filippine. Il nostro eroe, invitato dai suoi mandanti del Nord a seguire il suo Generale per spiarne in esilio le mosse, riesce a salire su uno degli ultimi C130 che lasciano un aeroporto già raggiunto dai mortai dei Charly. Da Guam si vola verso la California e, da lì verso i campi profughi americani. L’impatto è desolante, gli ex alleati non risultano troppo benevoli con profughi che ricordano l’amarezza della sconfitta, il passaggio dalla vita a suo modo grandiosa a Saigon ai piccoli traffici losangelini è deprimente, gli ex generali finiscono a vendere liquori, gli ex soldati a fare i facchini.
Il nostro eroe comunque non si scompone, riesce addirittura a inventarsi un’attività a suo modo prestigiosa. Affiancherà il grande regista americano, il riferimento a Coppola è palese, che sta per realizzare il suo capolavoro dedicato alla guerra in Vietnam. Apocalypse è alle porte e lui dovrà dare credibilità vietnamita agli scenari ambientati nelle Filippine. Ma in cuor suo vive la missione con un fine assai più elevato: ridare voce ai suoi connazionali, abituati nei film americani a figurare da semplici comparse, magari solo nei ruoli di cattivissimi assassini. Un compito impossibile, che alla fine si trasformerà in quello, assai più modesto, di sindacalista delle comparse. Con un finale irresistibilmente comico: il nostro, recatosi a pregare su una finta tomba della madre che immagina nel finto cimitero del finto villaggio vietnamita scenario del film, viene fatto esplodere anzitempo insieme ad esso, parrebbe per un incidente alla Hollywood Party, ma più verosimilmente per una subdola vendetta del grande regista, poco propenso ad accettare le sue critiche in materia di trattamento dei vietnamiti, nel film e nella vita.
Il tono resta scanzonato, la scena delle esplosioni è più comica che apocalittica, ma il problema è serio e tocca parecchi nervi scoperti. I nuovi immigrati si sentono doppiamente traditi: prima abbandonati nelle mani del nemico del nord, con la precipitosa fuga dei marines battuti. Poi terribilmente soli nella foresta, ben più irta di trappole, del way of life americano, laddove invece che da ex alleati, si sentono trattati da autentici paria.
Il nostro eroe diviso, spezzato in due tra la fedeltà agli ideali del nord, per cui segretamente cospira, e la pena per i suoi attuali compagni di sventura,arenati sulle spiagge d’America, sente la propria natura sdoppiarsi sempre più pericolosamente. Vivere più identità contemporaneamente, bruciare le cose da due parti, rischiare di perdere qualsiasi simulacro di unità, ecco l’abisso che gli si spalanca dinnanzi.
Lo salverà un imprevisto ritorno in patria. Gli ex ufficiali del vecchio esercito del sud non si arrendono all’anonimato dei fast food e delle rivendite di alcool, sognano un ritorno in grande stile nella vecchia patria, una rivincita impossibile contro le armate dello Zio Ho. Si addestrano nella periferia di Los Angeles, giocano ai soldatini nei week end e alla fine alcuni di loro davvero partono, destinazione Thailandia prima, poi Laos e Vietnam. Il nostro, causa un’improvvida relazione con la figlia del suo ex generale, si ritrova a partire come castigo, reo di aver aspirato troppo in alto, lui povero bastardo, mirando a una donna per lui comunque proibita.
Ancora una volta Nguyen sfodera qui un arguto sorriso ironico: giunti nel villaggio al confine dove si annida il nuovo esercito di liberazione, hanno un’amara sorpresa: invece dei bei soldati in divisa, fotografati sui depliant di propaganda in America, si trovano davanti un’armata di straccioni, in tutto identici, perfino nell’abbigliamento, ai vecchi vietcong. Ma le sorprese non finiscono qui, a comandarli è un ammiraglio che è un clone perfetto di Ho Chi Minh: stesso aspetto fisico, stessa parlata suadente, stesso soprannome, zio Ho. Insomma, il mondo si è capovolto ancora una volta, difficile capire chi sia chi, i ruoli si pervertono, si incrociano, il mondo moltiplica le immagini e le identità si sovrappongono.
Da questo punto in poi il libro si fa addirittura kafkiano, secondo il vecchio adagio della colonia penale. Catturato dall’esercito regolare, il nostro finisce imprigionato e dovrà, nonostante la sua militanza come spia per il nord, subire una crudele riabilitazione. Percorso di riscatto che si conclude con una domanda, ripetuta più volte dal commissario politico del campo, suo vecchio amico e referente spionistico: cosa c’è di meglio di liberà e indipendenza? Il nostro capitano prova parecchie risposte, dall’amore all’uguaglianza, senza mai centrare il bersaglio e continuando a subire sottili e perverse torture fisiche e mentali.
Alla fine l’illuminazione: cosa c’è di meglio? Niente, è la risposta esatta che lo libera. Niente è meglio di libertà e indipendenza, come si recita incessantemente nei nuovi mantra dalle parti di Hanoi . Ma niente è anche la risposta alla domanda cosa sono, nel nuovo Vietnam, libertà e indipendenza? Niente, appunto.
Il nostro eroe, campione naturale di doppiezza, è giunto infine alla più amara delle scoperte: niente cambia davvero, al potere coloniale francese si è sostituito lo strapotere americano, a questo, infine, è subentrato il dominio comunista. Ma nel susseguirsi dei cambiamenti, nulla purtroppo è davvero mutato: a un potere ne succede un altro, a un sopruso se ne sostituisce un altro, in una catena nietzschiana di eterni ritorni del sempre uguale, il dominio del più forte e la tortura del più debole, sulla cui carne si ama incidere le parole della canzone del dominio assoluto.
Una conclusione amara per un libro, a ben vedere, scanzonato e divertente, con un protagonista che assomiglia più allo Shandy di Sterne che al Curtz di Conrad ? Probabilmente il segreto di Nguyen è proprio questo: un pugno di ferro in un guanto di velluto, un libro divertente che nasconde un sapore profondamente amaro. Sopravvivremo, sono le ultime parole del racconto, ma lo si farà in un mondo per nulla amichevole, su cui si addensano le nubi di un malessere diffuso, laddove la diversità, invece di essere, come in questo caso, considerata una ricchezza intrinseca, viene scambiata per il nemico da battere.
Alfredo Passadore
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